http://www.abruzzo24ore.tv
A oltre tre mesi dal sisma dell’Abruzzo aquilano pare delinearsi una situazione in cui, mentre l’Italia plaude al potere taumaturgico con cui il Presidente del Consiglio avrebbe guarito L’Aquila (bollando tutti i dissenzienti come “comunisti che dicono sempre e comunque male di Berlusconi”), nei luoghi terremotati dilagano poco ascoltate e meno ancora politiche sensazioni di delusione, disappunto e rabbia.
Probabilmente la forma di aiuto che la Protezione Civile elargisce a nome dello Stato non è né il veleno che insinuano certi “comunisti” né la panacea efficacemente proclamata all’opinione pubblica, ma può essere immaginata alla stregua di una pesante medicina somministrata a un corpo ferito, con pesanti effetti collaterali a breve e lungo termine, una dubbia efficacia e esorbitanti costi che destano - a voler restare nella metafora - qualche sospetto riguardo il presunto disinteresse del “medico” (i poteri nazionali) ma anche, per alcuni versi, del “personale infermieristico” (i poteri locali).
Nel tentativo di trovare una prospettiva capace di descrivere in profondità questa sottile ambivalenza tra aiuto e profitto, può essere utile guardare alle dinamiche socio-economiche innescate dagli interventi sul territorio aquilano a seguito del sisma riferendosi all’incrocio tra due cornici meta-comunicative, due frames entro cui si dipanano le azioni e le rappresentazioni collettive inerenti all’enorme piattaforma di progettazione in corso. La prima cornice può essere evinta dalla mimesi delle finalità di profitto entro dichiarazioni di solidarietà, la seconda dal rapporto fra i poteri locali e quelli nazionali. Va pure notato che, attraverso il sistema degli aiuti per la ricostruzione di cui beneficia L’Aquila, questi due frames confluiscono e s’intrecciano nella catena d’intermediazione ove s’incanala la relazione tra aiutanti e aiutati.
Come si è intuito da un po’ di tempo, nei sistemi di aiuto umanitario tendono a prodursi industrie della solidarietà che - proprio attraverso le catene d’intermediazione tra chi emette l’aiuto e chi lo riceve - consentono di produrre il sortilegio che fa sì che chi aiuta qualcuno riesca, in varia misura, ad aiutare anche se stesso. Non deve sfuggire che, nell’enorme macchinario messo in piedi per sostenere l’estemporaneo (si spera) frammento di “Sud del mondo” intraoccidentale che è ora L’Aquila, tende a riproporsi, in piccolo, la sostanza di certi macro meccanismi perversi che abbiamo più o meno iniziato a comprendere per come agiscono su larga scala, in tutte le “Afriche” del mondo.
Se l’ambivalenza tra aiuto e profitto ci informa del “lato oscuro” della solidarietà, tale assunto può essere osservato in concreto ora a L’Aquila nel caso emblematico del progetto C.A.S.E., la grande opera edilizia – in sostanza un “ponte sullo Stretto” - calata sul territorio dal Governo, col pretesto di iniziare la ricostruzione già nell’emergenza (per dotare “già da subito” la popolazione di confortevoli e sensazionalistiche abitazioni, ma forse anche evitare i costosi e poco profittevoli containers, e tenere, in attesa del “da subito”, per mesi e mesi le masse sfollate in invivibili tendopoli).
Dal punto di vista delle scelte governative non può non destare qualche perplessità il fatto che il costo a metro quadro degli alloggi previsti per il progetto C.A.S.E. si aggira intorno ai tremila euro: con quote simili è difficile non pensare a strategie di profitto a favore dei colossi italiani delle costruzioni che si spartiscono le fette di questa grossa torta posta sul tavolo dell’emergenza (un tavolo dove, oltre certi costi a metro quadri, si può beneficiare di possibilità di speculazione accessorie come terreni espropriati a prezzo bassissimo e manodopera spremuta ai limiti della schiavitù).
Se lo Stato ha calato dall’alto il progetto C.A.S.E., il Comune (che probabilmente nel lungo periodo diventerà il proprietario di questi alloggi) ha orientato la scelta dei luoghi su cui collocare gli edifici in questione. O meglio, la Protezione Civile ha consentito alle istituzioni locali una preselezione finalizzata a preservare una serie di terreni dalla localizzazione del progetto. Così molti terreni vicini alla città (che sarebbero stati i posti più idonei per insediare questi condomini, in un’ottica di prossimità ai limiti della periferia urbana, finalizzata massimizzare la sostenibilità culturale dell’operazione) potranno preservare o incrementare il valore economico. Viceversa troppo spesso questi edifici finiranno nel territorio rurale del Comune, in luoghi in cui vi è una peculiarità paesaggistico-identitaria poco compatibile con i connotati di tale tipologia abitativa (si tratta di palazzine condominiali).
Così sorge il dubbio che più che a tutelare le proprietà del territorio i poteri locali abbiano puntato a preservare i proprietari dei terreni, all’interno di scelte di localizzazione orientate più al profitto che alla cultura antropologica dei luoghi, che hanno contemplato una priorità accordata più a criteri politico-economici che etico-sociali. In questa frettolosa e caotica prima fase di gestione post-sismica della territorialità aquilana viene da chiedersi se, mentre si va predicando da più parti un richiamo al concetto di sostenibilità, non si stiano producendo delle condizioni concrete di negazione fattuale di tale mirabile principio generale: le evitabilissime scelte che - per quanto riguarda quasi la metà delle localizzazioni - stanno determinando le strategie di consumo del suolo annesse al progetto C.A.S.E. non sono un esempio di vilipendio ai più elementari assunti della sostenibilità?
Osservando la matrice di possibilità astraibile dal gioco che si genera tra poteri nazionali e poteri locali in base a disposizioni al profitto o alla solidarietà, sono astraibili due strategie: quella incentrata sul sorvegliarsi a vicenda (in base a una visione collaborativa, etica dell’azione) e quella incentrata sul chiudere una occhio a vicenda sull’operato dell’altro (in base a una visione conflittuale, economica dell’azione). Nel primo caso l’amministrazione locale avrebbe potuto pretendere una tipologia abitativa differenziata, rispecchiante le varietà di habitat culturali del territorio comunale, non finalizzata a operazioni di profitto e di sfruttamento della manodopera salariata; riflessivamente lo Stato avrebbe potuto sorvegliare l’amministrazione locale per arrivare a una localizzazione delle case fatta in base a criteri culturali e non clientelari. Nel secondo caso la sostanza del protocollo potrebbe essere la seguente: “io amministrazione locale chiudo un occhio sulla speculazione che fai tu Stato sulle case, io Stato chiudo un occhio sul clientelismo che pratichi tu Comune sul territorio”. Se nel primo caso ognuno avrebbe potuto massimizzare il vantaggio collettivo in una prospettiva culturale (una situazione di ottimo paretiano in un’ottica etica), nel secondo caso ognuno cerca di massimizzare il vantaggio individuale in una prospettiva di profitto (una situazione di equilibrio di Nash in un’ottica clientelare). Questo per dirla attraverso termini imprestati riduttivamente dalla teoria dei giochi; comunque è facile intuire che opzione si è adottata.
Se gli eventi catastrofici si prestano all’affermazione di strategie di shock economy, va osservato che a fare affari con la solidarietà possono essere non solo i poteri nazionali, extralocali, “alti” o che dir si voglia, ma tutti gli attori politico-economici che formano la catena di diffusione degli aiuti dal livello dello Stato a quello locale. Quello dell’Abruzzo aquilano è al momento un clima di emergenza in cui la necessità serve da pretesto per l’imposizione di scelte che - pur legittimandosi come strumento di aiuto della popolazione locale – costituiscono ghiotte occasioni di profitto. Gli effetti a lungo termine di un terremoto riguardano perlopiù i processi di trasformazione del territorio colpito; e ad oggi c’è qualche timore che la conca dell’Aquila si possa trasformare in una “palude di coccodrilli”, di attori politici e di speculatori economici che, dopo aver divorato suolo in modo scriteriato, potranno piangere e, in nome della necessità, dire “meglio di così non si poteva fare”. È per questo che - acquisita l’ineluttabilità del mutamento imposto dall’evento - si dovrebbe vigilare con un’attenzione reale alla preservazione del valore culturale dei luoghi; ciò per fare in modo che la necessità non diventi un pretesto d’imposizione di scelte meno necessarie che convenienti.
L’Aquila, 23 luglio 2009
Antonello Ciccozzi
Nessun commento:
Posta un commento