Raccolgo qui dei testi che ho scritto su alcuni aspetti della gestione del processo di (ri)costruzione della città dell'Aquila in seguito al terremoto del 6 aprile 2009.
Gli scritti, a partire da una visione critico-problematica basata su prospettiva di analisi antropologico-culturale, puntano a mettere in rilievo i momenti di ingenuità, disfunzionalità, corruzione, propaganda, speculazione, profitto che minacciano il futuro della città.

L'Aquila, 10 marzo 2010
Antonello Ciccozzi

giovedì 11 marzo 2010

BERTOLASO HA FATTO DELLE COSE BUONE (MA SOTTO IL SUO DOMINIO L’AQUILA E’ STATA STUPRATA) 5 marzo 2010


Con questo scritto ho cercato di sottolineare come le pratiche di aiuto dirette da Guido Bertolaso verso le zone terremotate dell'Abruzzo aquilano, nascondendo nel cavallo di Troia degli aiuti una serie di inaccettabili aspetti di speculazione, si configurano alla stregua di una forma dittatoriale di postcolonialismo intraoccidentale, attuato attraverso il pretesto dell'emergenza portata dalla catastrofe naturale.

Il testo è stato pubblicato sui seguenti quotidiani online:

http://www.abruzzo24ore.tv/news/Guido-Bertolaso-un-eroe/15400.htm

http://www.ilcapoluogo.com/news.php?extend.2791.3



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Uno schizzo dell’artista Sergio Nannicola: il lato oscuro dell’aiuto. Avvoltoi e sciacalli intorno a una città agonizzante. Morti e macerie su un piatto della bilancia, profitto e speculazione sull’altro. Manca l’uomo.



UNA SANA RIS(VEGLI)ATA

Capita che la satira riesca a risvegliare le coscienze con una sana risata, arrivando subito in anfratti dove, a volte, la ragione annaspa. Sono già passati quindici anni da quando Roberto Benigni, uno dei maestri di quest’arte vitale, ci diceva qualcosa su Mussolini in una performance che può essere utile anche per evidenziare alcuni aspetti della sostanza morale di certi protagonisti che hanno determinato il destino dell’emergenza aquilana, e che potrebbero rivelarsi una nuova minaccia per l’Italia entro un groviglio di solidarietà e profitto.

È capitato a tutti sentire dire che Mussolini “ha fatto delle cose buone”, specialmente in riferimento a infrastrutture varie, tra funzionalità popolare e monumentalità auto celebrativa. È proprio riferendosi a questo tipo di affermazioni il grande comico controbatteva acutamente con una metafora grossomodo di questa risma: è come se chiami l’elettricista e questo ti fa bene l’impianto ma nel frattempo ti “tromba” la moglie.

Invito a gustare a fondo il pezzo, vero monumento alla libertà, da questo link: http://www.youtube.com/watch?v=9s4RfjBnDPE

Dico subito che sono dell’opinione che la descrizione data dal comico toscano - direi ammiccando a una possibilità transitiva di tali qualità verso Berlusconi - possa calzare comodamente anche a un personaggio come Bertolaso, che considero una figura intrinsecamente ambivalente, in cui elementi di varia e più o meno dozzinale per così dire “democraticità” sono intessuti intorno a un piglio e a condotte di tipo assolutistico-dittatoriale. Qui va precisato che il termine ‘opinione’, designando una conoscenza che non ha garanzia della propria validità, concerne questioni di credenze, fissazioni, posizioni soggettive, relative e discutibili. Parlando di ‘fatti’ invece ci dovremmo riferire ad avvenimenti che rimandano a possibilità oggettive di verificazione.

Ad essere sincero, se ci penso bene, ritengo pure che questa mia opinione personale sul commissario in questione, porti, ora e sul territorio di L’Aquila, una serie tale di elementi fattuali che la rendono poco opinabile, a meno di non voler ostinarsi a guardare solo una parte di quanto è toccato a questa città.

Qualcuno dice che Bertolaso è un eroe. Sarà che mi sbaglio, ma a me Bertolaso più che un eroe sembra un mercenario, un po’ egocentrico, un po’ fanatico, un po’ colonialista, un po’ dittatore. Certo uno al passo coi tempi, in un decisionismo spesso ammantato da modi abbastanza ricercati e gentili; ma uno che ha instaurato - per un arco di tempo che si fisserà sulle nostre vite come una cicatrice - un regime assolutistico entro una relazione di potere di stampo più coloniale che democratica nel mentre curava da un terremoto la città in cui vivo, e in cui ho il diritto di cercare un modo migliore per vivere.

Sarà che non mi piace la gente che vuole comandare in divisa: la storia è piena di persone in divisa che in varie situazioni di crisi si siedono dietro un tavolo a dare ordini per la salvezza delle popolazioni. Questi signori in uniforme spesso si sono rivelati dittatori, che a volte ci provano e a volte ci riescono, nella sfilata di vari modi e varie forme portate dalla storia, ma con un cipiglio di fondo sempre simile, quello del “si fa come dico io”. Cambiano le fogge delle divise, ma non cambiano i modi di fondo.

Se dovessi sbagliarmi mi scuso tanto, ma, visto che in Italia c’è libertà di opinione, vorrei provare ad usare questa libertà e argomentare questa mia bruttissima impressione. Anche perché le libertà sono come le gambe: se non si usano perdono forza.



LA R(APPRESENT)AZIONE

Un primo punto che mi bisbiglia che considerare in malo modo degli aspetti fondamentali della figura di Guido Bertolaso possa poggiarsi su un piano fattuale, deriva dal senso che mi viene pensando a una figura retorica particolarmente chiarificante riguardo a ciò che avviene a L’Aquila (ma purtroppo anche altrove): la sineddoche. “La prua per la nave”, ad esempio. La sineddoche, indicando “la parte per il tutto”, si presta a descrivere bene la sostanza prima dei processi di comunicazione massmediatica che hanno riguardato L’Aquila ferita dal terremoto, dove, aprendo una strada di duecento metri, si poteva dire all’Italia che aveva riaperto tutto il centro storico. La sineddoche è un riflettore puntato su una parte, che nasconde il resto, censurando elementi insignificanti o, ma anche, a volte, nascondendo volutamente trappole varie. L’uso più fastidioso della sineddoche che è stato fatto da Bertolaso è quello in base al quale si è sistematicamente scelto di mettere in evidenza - nella relazione che ha legato L’Aquila all’Italia e minimamente al mondo - solo la parte di solidarietà, nascondendo una serie enorme di processi di profitto più o meno leciti, che ora vengono a galla.

La sineddoche evidenzia ciò che conviene nascondendo l’altro, è un ottimo modo per coprire l’eccesso osceno del potere. Essa è un riflettore che in questo terremoto ha messo in luce con grande enfasi solo l’aiuto, adombrando il fatto che spesso tale aiuto ha aiutato più chi lo ha portato che chi lo ha ricevuto. Già il non sottolinearlo è ingeneroso da parte di chi aiuta, farci poi un motivo di speculazione economica e di scalata di potere è illegale oltre che immorale. La sineddoche è azione di potere, è il carburante che consente alla macchina della propaganda di funzionare. La sineddoche conferisce questo potere in quanto essa sottende una rappresentazione razionata della realtà in base a criteri di selezione culturalmente, politicamente, ideologicamente, economicamente orientati.

LA NEG(OZI)AZIONE

Se la sineddoche riguarda processi di cesura operati entro sistemi di rappresentazione, una procedura simile ha investito i processi di negoziazione degli interventi nella forma di una binarizzazione degli ambiti di scelta: o-tutto-o-niente. Il dispositivo del o-tutto-o-niente è la chiave di una forma specifica di organizzazione assolutistica del potere che può essere intesa come autoritarismo incondizionato da parte del lato del dominante, e come privazione totale di autonomia da parte del lato del dominato, che risulta così eterodiretto. La relazione che si configura tende a un rapporto di potere puro, totalmente sbilanciato in una direzione.

L’o-tutto-o-niente, sedimentato a livello di cultura popolare anche nel detto “o mangi questa minestra o ti butti dalla finestra”, è quello che è avvenuto con le tende, con le case: “queste sono e queste ti prendi”, in una privazione totale di autonomia decisionale da parte della popolazione. È così che un processo di selezione tra una rosa di scelte possibili può essere smerciato, nel nostro caso in nome dell’emergenza, come necessità inevitabile (nel nostro caso solo quelle C.A.S.E., con solo quelle piastre, in base a un progetto già nel cassetto).

L’o-tutto-o-niente di fatto nega la possibilità di negoziazione, e lo fa all’interno un assolutismo di machiavellica memoria, in cui il potere ritiene bastante la sua legittimazione in termini di stretto bonum commune, dove la capacità reale o ostentata di dare sicurezza diventa pretesto sufficiente per l’egemonia in cui la capacità di direzione si fa subito possibilità d’imposizione, ossia dominio.



L’(ACCETT)AZIONE

Dopo aver accennato ai modi di fondo in cui si sono attuate la rappresentazione (parziale) dell’evento e la negoziazione (negata) degli interventi, c’è da dire qualcosa rispetto ai consequenziali processi di accettazione dei sistemi di scelta calati sui destini della popolazione sopravvissuta alla catastrofe.

In tal caso si è assistito a un processo speculare e conseguentemente necessario all’o-tutto-o-niente della negoziazione negata; dove la polarizzazione tra “si” e “no” - nell’impossibilità del rifiuto dell’aiuto portato dalla necessità - ha fondato l’obbligo di accettazione da parte della cittadinanza dell’apparato di cui Bertolaso è a capo. “Io ti porto questo aiuto e tu lo accetti in blocco”. Ecco la sintesi della relazione che ha costretto la città ad accettare, con il sostegno, lo stupro da parte di un sistema di profitto che ancora la minaccia pienamente. Margini minimi di autonomia sono stati solo concordati con le inette e corrotte istituzioni locali (ma questo è un altro discorso che ho fatto più volte) lasciando la cittadinanza senza possibilità di arbitrio.

L’emergenza, riducendo allo stato di necessità, favorisce processi di accettazione che legittimano il dispositivo logico che sta alla radice della deviazione estremistica di qualsiasi relazione: quello del tertium non datur, dove una concezione del possibile diadica e non triadica, precludendo una relazione dialettica, porta al rifiuto di ogni compromesso.

Accettare vuol dire ricevere di buon grado ciò che viene offerto, acconsentire all’altro; in un significato che etimologicamente si radica in quello di prendere a sé, ossia, comprendere, capire. I processi di accettazione hanno in città avuto un supporto di comprensione sufficiente?

Ciò che andrebbe compreso è che la macroentità che è piombata a L’Aquila dopo il sisma vede una costitutiva compresenza di profitto e aiuto. È proprio quest’ambivalenza che rende parziali le approssimazioni nette del tutto “pro” o tutto “contro”; perciò è più che mai indicato coltivare il sano e scientifico principio del dubbio. È il dubbio che apre alla possibilità di discernimento: la riserva del “ma” è una porta verso l’autonomia, una possibilità di uscita dal rischio di eterodirezione. Se il “sì” totale appare ingenuo a certi e il “no” totale sembra ingrato ad altri, personalmente coltivo la possibilità del “ma”, del “però”, del “tuttavia”.

Per quanto mi riguarda sono uno che dice ragionatamente grazie per la minestra, ma la contropartita non è ridurre la città a una colonia per speculatori. Sono un “quantunquista”. Credo che l’unica azione possibile sia discernere senza accettare (o non accettare) in blocco: separare, come evangelicamente si usa dire, il grano dall’erba cattiva; ma in questo caso, riguardo a Guido Bertolaso, “capo” della Protezione Civile, mi pare che sul piatto della bilancia l’erba cattiva, seppure difficilmente visibile perché meno alta del grano, sia davvero tanta.



LA CURA (MONU)MENTALE

Il nome dell’Aquila rimanda a un alveo simbolico vastissimo, tra l’universo classico (era l’uccello di Zeus) e quello sciamanico (la regina del cielo per gli sciamani siberiani, il sole per i nativi americani). Il simbolo comprende aspetti luminosi derivati dall’elegante forza dell’animale come la fierezza, la bellezza, la spiritualità, l’elevazione intesa come contemplazione e purezza d’intelletto; e aspetti malefici derivati dal suo essere emblema di predazione, come la crudeltà, il rapimento, l’imperialismo, l’oppressione, la perversione del potere.

È paradossale che oggi questi aspetti nella città che porta un nome così bello e tremendo si siano sgretolati, confusi, a volte totalmente invertiti, scoprendo (pensiamo ai poteri locali e al perdurante inebetimento di buona parte della popolazione) un luogo di imbarazzanti debolezze e di grettisima miopia politica. L’Aquila viceversa è assalita dagli avvoltoi e sciacalli profittatori che si annidavano dal primo giorno del dopo terremoto dentro il cavallo di Troia degli aiuti, e si è trasformata da predatore in preda. Oggi L’Aquila si ritrova immobilizzata da una cura che non mira tanto a guarire quanto a imbalsamare.

Questo essere-aiutati a prezzo della perdita di autonomia si configura come una condanna all’essere agiti, che produce un non-esserci, nell’idea angosciante di una felicità galleggiante in una deriva eterotopica, senza luogo, tra la serialità, l’impersonalità, la blasfemia paesaggistica del progetto C.A.S.E., e il vuoto consumistico degli unici spazi collettivi al momento fruibili: dei tristissimi centri commerciali. Ora L’Aquila, che era una città splendida, fa letteralmente schifo, ma non per colpa del terremoto: il terremoto ha prodotto orrore. L’Aquila inizia a fare schifo per colpa di soluzioni che hanno generato futuri problemi da risolvere, immergendola in un circuito urbanistico che produce alienazione; in una città fatta a pezzi attraverso metastasi condominiali buttate alla rinfusa tra i margini rurali del territorio comunale. Questo ha significato in concreto dare aiuti che servono più a chi li porta che a chi li riceve. Questo significa usare l’emergenza come pretesto per veicolare fondi pubblici a beneficio del profitto di soggetti imprenditoriali privati.

È per questo che mi puzza tanto di dittatoriale la cura della città attraverso la monumentalità spicciola del progetto C.A.S.E., che mentre ospita in comodato d’uso i terremotati, fornisce un’occasione enorme di ampi margini di profitto a moltissime aziende, e una risorsa propagandistica con cui Berlusconi e Bertolaso ostentano doti taumaturgiche da riconvertire subito in un palpabile incremento di consenso politico. Anche questa è una forma di sineddoche: ne accontenti pochi e li imbelletti di fronte alle telecamere, il resto di loro, come il resto d’Italia che annaspa per campare, quelli non li fai vedere. Le Brigare Rosse avevano un motto: “colpirne uno per educarne cento”. È un sistema analogo a quello del Governo, la parte per il tutto: “soddisfarne pochi per fregarne molti”. Chi vive nell’adunata oceanica del progetto C.A.S.E. aquilano sta in comodato d’uso dentro un enorme spot governativo, e paga con il minimo sindacale del silenzio assenso, o con commossi e sperticati ringraziamenti di chi ha paura di finire in mezzo a una strada. Poi, quelli che parlano male del Governo lo fanno solo perché sono comunisti. E il gioco è fatto, questo gioco è già noto ma non si poteva non richiamare. Qui a L’Aquila o ci accorgiamo che ci hanno fregato in questa prima fase o ci esponiamo ad essere ancora fregati con gli affari delle macerie e della (reale) ricostruzione.

Nel primo testo che pubblicavo - un mese dopo il terremoto - per criticare la localizzazione del progetto C.A.S.E., paragonavo la vicenda dell’Aquila a quella della povera Eluana Englaro, la ragazza che, proprio poco prima del terremoto dell’Aquila, chiuse la sua sfortunata avventura terrena dopo una prigionia crudele, con il suo corpo costretto dalle macchine istituzionali a vivere senza l’anima. In un’inversa specularità guardavo l’interdizione militare del centro dell’Aquila come una minaccia di morte della sua anima. Contro quelle macchine siamo ancora chiamati a lottare. Eluana e L’Aquila: in entrambe i casi lo scopo perverso non è liberare il corpo dal male, ma usare il corpo per la cura. Le macchine istituzionali che finalizzano la cura della città non alla guarigione ma al parassitismo si chiamano così: profitto attraverso l’aiuto.

A mio parere, la vera cura per la città dell’Aquila sta nello sviluppo di una mentalità. Questa forma mentale, starebbe – fuor di retorica - nel disporci con vigore a cacciare gl’invasori dalla città, ma sempre distinguendo il grano dalla zizzania, ossia dispensando riconoscenza e ospitalità a chi ci ha aiutato, ci aiuta e ci aiuterà onestamente; dove l’onestà si misura nel riconoscimento reciproco di solidarietà e autonomia, e non in indebite santificazioni. La vera cura sta nel ritrovare e coltivare un misurato orgoglio che sia capace di distinguere e separare ciò che va da ciò che non va, disponendo la città a difendersi dalle aggressioni senza commettere l’errore di chiudersi alle relazioni sane.

Dovrebbero essere rifiutate certe logiche di tipo esclusivo (dell’o-o), in cui il consenso non può che essere assoluto, come pure il dissenso. Qualcuno vede nella Protezione Civile solo un sistema di aiuti, altri vi vedono solo un sistema di profitto; qualcuno vede nel progetto C.A.S.E. solo un successo, altri solo un fallimento, Quello che resta fuori è una possibilità di accettazione inclusiva (dell’e-e), che possa rendere conto dei paradossi e delle contraddizioni presenti in un’istituzione complessa e articolata come quella della Protezione Civile, e negli esiti delle sue politiche. Aprendosi a una visione inclusiva delle contraddizioni ci si può disporre a riconoscere un apparato che intreccia aiuto e profitto, in cui il sistema di solidarietà copre come un cavallo di Troia una strategia economica di speculazione, in un’aggressività che arriva fino al tentativo di colpo di Stato neoliberista insito nella pretesa di fare della sicurezza una società per azioni.

Come per le macerie occorre separare, distinguere, differenziare i piani, e per capire che succede a volte bisogna saper leggere tra le parentesi, allora ci si può accorgere che alcuni doni sono in realtà – certamente non solo, ma anche - dei cavalli di Troia. Lasciamo gli eroi ai miti e iniziamo un discorso di consapevolezza sugli uomini. L’unico eroismo che vedo in questa storia sta nella gratuità e nel sacrificio di chi è venuto senza contropartite nascoste. L’unico modo per rendere merito al sacrificio delle vittime di questo terremoto è farne degli eroi mettendoli a sentinella di una ricostruzione che sia realmente sostenibile sotto tutti i punti di vista, e che non produca rattoppi urbanistici mettendo di nuovo a rischio le future generazioni.



SI PUO’ METTERE UNA CITTA’ ALLA BERLINA?

È abbastanza chiaro che scrivo proprio ora queste righe perché sono indignato per la manifestazione pro-Bertolaso che dovrebbe tenersi domenica 7 marzo a L’Aquila, non tanto perché c’è gente che vuole manifestare a sostegno di qualcuno che reputo molto poco elogiabile, ma perché non riesco ad accettare che il senso di questa cerimonia debba essere, per chi l’ha organizzata, questo: “non accettiamo che un eroe nazionale venga messo alla berlina”. Da una parte il “non” del proclama rende sottilmente tale evento una manifestazione contro chi ha criticato Bertolaso. Poi, si usa un termine, quello di “eroe”, che è quanto meno improprio per descrivere la persona di Guido Bertolaso attraverso il suo operare. Un conto sarebbe dire che ha fatto anche qualcosa di buono, un conto è pretendere il titolo di “eroe”. Il “nazionale” aggiunge un elemento ulteriore di preoccupazione. Siamo in un certo senso persino più in là di quello che ha sottolineato Benigni. Bisogna stare attenti a certi osanneggiamenti. Per il bene dell’Aquila e dell’Italia. Si inizia con una città, e non si sa dove si finisce.

L’eroismo, nel senso onesto del termine, riguarda azioni descrivibili in termini di dono, nella gratuità, fino al sacrificio di sé. In una declinazione delle forme del dono tra gratuità, reciprocità e possesso, Bertolaso non arriva nemmeno alla reciprocità: non c’è reciprocità quando l’essere-aiutati si configura nel non-esserci dei terremotati, ossia nella privazione di autonomia finalizzata alla spoliazione tramite il profitto.

Il terremotato: ormai siamo una categoria marginale, elementi di bassa umanità, descritti come “esasperati che non ragionano” dai massmedia, come privi di “lucidità” da certi politici, animalizzati attraverso mesi di tendopoli e rappresentazioni massmediatiche che cercano solo la lacrima o l’urlo, preparati alla domesticazione del “grazie” incondizionato sotto la minaccia di esser tacciati di ingratitudine. L’Italia intollerante ci insulta come insulta altre minoranze, in un bestiario neorazzista in cui iniziamo ad accorgerci di essere stati annessi, come disperati di lusso, ma pur sempre disperati. Oltre i negri, i froci, gli ebrei ora ci sono i terremotati. Il male ricevuto è segno di colpa, è la forza primitiva di un universale archetipo espiatorio, che cova sotto le moine solidaristiche di qualsiasi civiltà. Il terremoto così produce un dislivello di cultura. Questo non si può accettare.

L’unica reciprocità qui è stata: “io ti aiuto come dico io, tu fai il terremotato, ossia dici grazie e non fiati, altrimenti sei ingrato”. La reciprocità della gratitudine incondizionata come contropartita al dono imposto è nient’altro che possesso. Questo fa di Bertolaso, nella migliore delle ipotesi, se si vuole cercare una definizione accessoria a quella di “capo” della Protezione Civile, un mercenario a servizio di un sistema di profitto; e un mercenario non è un eroe.

Non è la prima volta che i contesti di aiuto umanitario si rivelano come situazioni di esercizio di relazioni di potere di tipo post-coloniale; e, in ogni congiuntura coloniale, chi invade si serve sempre di appoggi interni diretti o indiretti per operare. Quindi è possibile che qualcuno a L'Aquila andrà a osannare Bertolaso anche per convenienza, connivenza o ingenuità. In questa manifestazione personalmente vedo un atto propagandistico di sostegno sia a una politica di eterodirezione della città in nome del profitto di privati che usano i fondi pubblici dell'emergenza per l’arricchimento personale sia a una strategia di scalata al dominio nazionale attraverso la scorciatoia dell’egemonia offerta dai contesti emergenziali.

Mi aspetto che il presidente della Regione Chiodi ci vada a questa manifestazione per dire che Bertolaso è un eroe; e forse anche il sindaco Cialente (il nostro sindaco, che ha consegnato le chiavi della città al commissario Bertolaso per avere probabilmente come tornaconto la possibilità di mantenere la sua aiuola clientelare di casta) ci dovrebbe andare, insieme alla presidente della Provincia Pezzopane. Certo, anche Cialente e la Pezzopane dovrebbero andare a manifestare, per mantenere una coerenza con la linea mostrata per mesi di fronte ai media nazionali: grandi sorrisi, applausi, inchini, ringraziamenti e spumantini a Berlusconi e Bertolaso davanti all’Italia. Poi, quando era il caso, sussurrate disapprovazioni carbonaresche di fronte alla cittadinanza, ma sempre lontano dai media nazionali. Viene da pensare che ci sia stato un “voi governanti abruzzesi fateci fare, avrete la vostra fetta della torta”. Ma questo è un altro discorso.

Mi auguro, per quanto mi riguarda, che saranno tanti gli aquilani, nella libertà di esprimere la propria opinione, a dichiarare indignazione contro l'offesa che questa manifestazione rappresenta: non si può celebrare come eroe chi è stato capo di un sistema che è venuto a fare profitto sulla nostra disgrazia; e mi pare che Bertolaso mentre ci aiutava – facendo il proprio mestiere - abbia fatto anche questo in modo diretto e indiretto, entro un’enorme varietà di forme che stiamo ora iniziando a comprendere: un profittatore, nel senso etimologico del termine, per quella che voleva far diventare la sua “azienda”; un mercenario per il profitto di addentellati vari, che mentre nutriva la città l'ha preparata per lo stupro, con la complicità accontentata di qualche cialtrone e delinquente locale, con il favore dell'emergenza.

Non si può impedire una manifestazione. Non si può impedire una manifestazione? È un tema delicato; che, ancora una volta, riguarda il distinguo tra opinioni e fatti. È una questione di relativismo e di valori universali. È una questione di verità. Le opinioni sono opinioni, e - in un confine labile, confuso, sovrapposto e intricato - i fatti sono fatti. Ma qui il terremoto, come fa qualsiasi altro sconvolgimento, ha sconnesso la verità dai fatti, dove bene o male riesce molto precariamente ad ancorarsi nei tempi “normali”, e ora la verità sta alla deriva nella palude delle opinioni. L’Aquila è un luogo in cui la verità è, più che altrove, in balia delle opinioni: il terremoto era 5.8 o 6.3 gradi? Perché ci hanno tranquillizzato? E ora, Bertolaso è un eroe? Un eroe nazionale? Già, perché per qualcuno Bertolaso è un eroe, per altri è un profittatore, per certi è un dittatore. Non solo: se le opinioni vanno rispettate, allora va rispettata anche la posizione di quelli che pensano che Bertolaso è un assassino. Si tratta in certi casi di gente che porta la croce di lutti insanabili, quindi la loro opinione va rispettata due volte. C’è al mondo chi manifesta contro o pro il burka, chi alimenta l’industria della prostituzione, chi vuole cancellare Israele e chi vuole cancellare la Palestina. La libertà di opinione confina telluricamente con i limiti dell’idiozia, della decenza, dell’orrore, è una cosa complicata.

Perciò chi andrà a dire in un luogo pubblico che Bertolaso è un eroe, dico un eroe, deve sapere bene cosa sta facendo, perchè o è concusso o non ha capito il senso di certi termini. Un eroe è un eroe. Un eroe, per esempio, è chi si è infilato sotto le macerie rischiando la vita per estrarre un ferito. Quindi sarei cauto, tra tanti eroi comuni che sono venuti a L’Aquila, a erigere monumenti terminologici a Bertolaso. Inoltre – a voler parlare di sacrificio - con più di trecento morti ammazzati con la complicità dei messaggi rassicuranti (scientificamente del tutto inammissibili) mandati dalla Protezione Civile quella notte, credo che qualcuno potrebbe offendersi, profondamente e, con tutte le ragioni del caso, ritenere certi entusiasmi un atto di sacrilegio.

L’importante però è che la gente di questa città sta iniziando a capire; e chi viene a L'Aquila per fare profitto su una disgrazia collettiva inizierà a rendersi conto che ha sbagliato posto. Se proprio andiamo cercando di attribuire certe etichette dovremmo tenere presente che quella dell’eroe è una figura legata al sacrificio. Allora Forza L’Aquila, città eroica; che da qualche parte bisogna pur cominciare per coltivare una rinascita, e a volte anche la retorica può aiutare, che le parole da sole non sono sufficienti ma sono necessarie se si vuole fare bene.

L’Aquila 05-03-2010

Antonello Ciccozzi

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