In questi giorni l’Italia, o una parte di essa se si preferisce, si interroga sulla rettitudine di Guido Bertolaso, e - in una istintiva smania semplificatrice che non può contemplare l’eventualità che l’eroe di turno possa umanamente essere sia un mezzo salvatore che un mezzo farabutto - si affanna a trovare prove di corruzione. A L’Aquila le prove ci sono, sono sotto gli occhi di tutti, come evidenze implicite ma concrete, che non riguardano poco consistenti concatenazioni a oscene manifestazioni di cinismo telefonico o alcuni variamente presunti benefici venerei.
Sono tante le prove, e alcune sono grandi come una casa, anzi come circa la metà dei quasi 200 palazzoni condominiali del progetto C.A.S.E.. Nelle righe che seguono cercherò di spiegare perché, al di là delle opinioni personali, tale operazione urbanistica costituisce, ipso facto, un esempio di corruzione che vede coinvolto il sistema della Protezione Civile in concussione con l’amministrazione locale aquilana, con l’appoggio di una imponente propaganda mediatica, e tra lo stordimento, la troppa distrazione o il silenzio-assenso dei comitati e della società civile in generale riguardo il connotato della localizzazione di tale progetto. A tal fine occorre partire da un paio di premesse concettuali.
Prima di tutto può essere utile chiarire il senso del termine ‘corruzione’ riferito al politico; senso che sta tra l’antropologia culturale e il diritto penale. Il politologo Gianfranco Pasquino ci dice che «la corruzione è politica quando si estrinseca in comportamenti contrari alle credenze, ai valori, alla cultura di una società e, allo stesso tempo, quel che più conta, con modalità difformi rispetto alle leggi che regolano l’esercizio legittimo del potere nella sfera pubblica. Pertanto oggetto e misura della corruzione politica sono tutte le decisioni prese o non prese dai detentori di potere politico che violano le norme giuridiche generali per perseguire interessi e vantaggi particolaristici». Questa definizione sottolinea tra le cose che la corruzione politica dipende non solo dalle decisioni prese da chi ha potere, ma anche da quelle non prese.
Come seconda premessa è opportuno un richiamo alla Convenzione Europea del Paesaggio, che la Repubblica Italiana ha recepito nel 2006 per rafforzare uno tra i più vilipesi articoli della Costituzione, l’articolo 9 (che recita: «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»). Questo dispositivo normativo, a partire da una definizione di paesaggio in termini di percezione del carattere di un territorio da parte di chi lo abita, chiama una prospettiva di sviluppo sostenibile che prevede la salvaguardia di tutti i paesaggi, nell’idea che il patrimonio paesaggistico sia un elemento fondamentale a garantire la qualità della vita delle popolazioni. La finalità sarebbe quella di soddisfare gli auspici delle popolazioni di godere di una geografia di qualità e di svolgere un ruolo attivo nella sua trasformazione; dove “ruolo attivo” significa prevedere il diritto degli abitanti di un luogo di autodeterminazione delle caratteristiche dello stesso, escludendo che i luoghi possano essere progettati unicamente dall’esterno. Nel riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale dell’identità culturale delle popolazioni che lo abitano, tale convenzione prescrive che le autorità pubbliche debbano salvaguardare gestire e pianificare il paesaggio attraverso azioni fortemente lungimiranti, volte alla conservazione e al mantenimento degli aspetti significativi o caratteristici di un paesaggio, alla valorizzazione, al ripristino o alla creazione di paesaggi. Ciò integrando il paesaggio nelle politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche; e avviando procedure di partecipazione che tengano conto delle aspirazioni delle popolazioni per quanto riguarda le caratteristiche paesaggistiche del loro ambiente di vita.
Fatte queste premesse occorre ora riportare brevemente l’attenzione verso una serie di avvenimenti cruciali, conseguenti al sisma del sei aprile 2009, riguardanti l’imposizione di una tipologia abitativa d’emergenza avanzata dalla Protezione Civile attraverso il progetto C.A.S.E., e la successiva negoziazione di tale progetto con i poteri locali, in una trattativa sfociata nella possibilità concessa all’amministrazione comunale, a partire dal sindaco Massimo Cialente e degli addetti comunali all’urbanistica, di pre-determinare la localizzazione di tale progetto sul territorio del comune di L’Aquila, accettando senza riserve la tipologia progettuale proposta a livello nazionale.
Il progetto C.A.S.E. si affaccia sul terremoto dell’Aquila con una solerzia sorprendente, immediatamente dopo il sisma, nella forma di una L’Aquila2 promessa da Silvio Berlusconi. L’11 aprile 2009 le agenzie stampa riportano le dichiarazioni del presidente del Consiglio dei Ministri, scrivendo che «Berlusconi ha assicurato che la “new town” da costruire a fianco della vecchia città (“richiesta dal vostro sindaco”) non sarà un ghetto, ma anzi sarà costruita, “con il linguaggio architettonico locale”, sul modello di Milano2 e Milano3». Il sindaco di L’Aquila pare che invece non sia stato mai troppo entusiasta della new town di Berlusconi (e di Bertolaso), infatti già l’8 aprile su Omnibus (trasmissione dell’emittente La7) dichiara che «costruire una new town vorrebbe dire distruggere e abbandonare la città».
Il fattore chiave che definirà la base di quanto è ad oggi successo a L’Aquila si ha il mese dopo, quando la Protezione Civile accoglie i tre criteri dettati da Cialente: no alla New Town, distribuire sul territorio i nuovi insediamenti e localizzarli il più vicino possibile alle frazioni. Considerando che la tipologia dei complessi abitativi era stata già definita in termini di condomini accessoriati da corpulente piastre antisismiche (il cui progetto era già pronto nel cassetto della Protezione Civile) è già da qui che si delinea un reato contro il paesaggio. Il primo criterio dice no alla new town, a quel punto i condomini del progetto C.A.S.E. avrebbero potuto esser messi intorno a L’Aquila, ma questo non avviene; questa decisione non viene presa. Il sindaco ha usato il suo margine di decisione comandando di posizionare i condomini che avrebbero ospitato gli aquilani senzatetto, non usando i terreni in prossimità dell’Aquila, bensì quelli dei paesi. Dire «il più vicino possibile alle frazioni» è un modo scaltro per dire “il più lontano possibile dall’Aquila”.
Così la combinazione del secondo e del terzo criterio voluti dal sindaco ha comportato che il territorio di quasi tutti i paesi del comune dell’Aquila è stato occupato da un secondo borgo destinato perlopiù agli aquilani. È questo il nucleo di quanto è accaduto: da un lato l’amministrazione locale ha accettato una tipologia costruttiva imposta dallo Stato, dal lato opposto lo Stato ha accettato i vincoli localizzativi imposti dall’amministrazione locale; e questo configura il progetto C.A.S.E. - in circa la metà dei diciannove siti abitativi sviluppati a partire da esso – come un caso di corruzione politica perché, collocando complessi abitativi a connotati urbani in ambiti rurali (vale a dire costruendo condomini nei paesi) viene violata in molti luoghi la Convenzione Europea del Paesaggio. I paesi danneggiati dal sisma situati fuori dal comune dell’Aquila hanno avuto delle più adeguate casette di legno; per quelli nel comune del Capoluogo, già simbolicamente espropriati di autonomia e ridotti ad appendici attraverso l’uso dell’orrendo termine “frazioni”, niente casette, ma palazzine in quantità, per insediare perlopiù gli aquilani terremotati.
Poi bisogna chiedersi perché Cialente non ha voluto le case di emergenza che avrebbero ospitato in comodato d’uso gli aquilani vicino a L’Aquila. La ragione pubblica, propagandata non senza un certo talento demagogico alla cittadinanza, era di tipo identitario e secondariamente legata al preconcetto che le case in questione sarebbero state di bassa qualità; la ragione istituzionale e intima è stata di tipo economico-clientelare.
Per quanto riguarda il primo punto c’è da ricordare che L’Aquila2 era per Cialente una minaccia per la città, minaccia scongiurata scaricandola su Roio2, Camarda2, Sassa2, Assergi2, Paganica2 e via dicendo: molto “democraticamente” l’identità della città andava difesa sacrificando quella dei paesi del circondario, anzi, delle “frazioni”. Ma non è solo questo il punto, sotto questo grossolano e stucchevolmente vernacolare discorso identitario c’è di peggio.
Adombrando queste manovre con chiacchiere identitarie si è potuto giocare un progetto di tutela degli interessi particolaristi dei gruppi di potere aquilani. Durante tutta la fase di scelta dei siti e di costruzione di questi edifici molti esponenti dei poteri locali hanno spesso mentito, sbandierando all’opinione pubblica il “noi non abbiamo potuto fare niente”, ossia che le aree le aveva decise solo la Protezione Civile, e che quelli scelti erano i posti migliori, anzi gli unici, in quanto vicino a L’Aquila non si poteva costruire a causa di una concomitante scoperta di problemi idrogeologici e di antisismicità dei suoli. Casualmente, appena terminata la costruzione del progetto C.A.S.E., i risultati della micro-zonazione geologica fatta dalla Protezione Civile hanno sentenziato che quasi ovunque sarà possibile costruire: con una tempistica favolosa i vincoli idrogeologici e antisismici sono spariti dai terreni prossimi alla città. In questo modo tali proprietà, dopo essere state risparmiate dai feroci espropri per il progetto C.A.S.E., potranno tornare al clima che su di esse c’era prima del terremoto, se non a uno migliore: i terreni in questione sono quelli su cui da trent’anni tutti sanno che, come avviene in ogni altra parte d’Italia, è in corso una silenziosissima guerra di posizione tra imprenditori edili, politici e lobbies economiche finalizzata a operazioni speculative. Per qualcuno a L’Aquila il terremoto non c’è stato, anzi, ha portato fortuna. Gli amministratori aquilani, con grande onore per l’etica di sinistra alla quale dovrebbero rifarsi, hanno scelto di preservare l’interesse particolaristico dei proprietari dei terreni contro quello collettivo delle proprietà del territorio. Il pretesto dell’emergenza ha reso naturale una manovra politica difficilmente proponibile in altri tempi .
Quindi, in altre parole, il “patto Molotov-Ribbentrop” instaurato tra Protezione Civile e sindaco è riassumibile in questa linea: “noi facciamo le nostre case, tu tuteli i terreni di tuo interesse e poi ti prendi le case”. Bertolaso ha ammesso pubblicamente che la scelta finale dei terreni è stata fatta dalla Protezione Civile, ma, si badi bene, dopo una preselezione in cui - prima di tutto Cialente attraverso i suoi criteri, poi gli urbanisti del comune nel dettaglio – i poteri locali hanno indicato i terreni da preservare. Gli urbanisti della protezione civile hanno candidamente ammesso che per loro queste case era importante farle, il dove lo potevano anche far decidere al comune. Molti consiglieri comunali affermano di non aver avuto minimamente peso in questa trattativa tra Cialente, i suoi urbanisti e la Protezione Civile. Questi particolari sono però solo accessori, ripeto, il tutto è stato generato dal criterio ipocrita di posizionare questi condomini per gli aquilani terremotati vicino alla frazioni, ossia lontano dalla città.
Certo, poi qualcuno verrà anche a dire che in fondo a simili violenze sul territorio L’Aquila, come pure in varia misura l’Italia, era già ben abituata, anche senza terremoti. Quindi, figuriamoci se con quello che è successo ci dobbiamo mettere a pensare al paesaggio. Questo mi hanno risposto gli artefici del capolavoro urbanistico di cui qui scrivo. Il sistema di localizzazione del progetto C.A.S.E. non è altro che l’ennesimo episodio di gestione del territorio in base a una razionalità finalizzata più al profitto economico che al benessere sociale, in fondo non è niente di nuovo. Così va il mondo. No, questo non si può digerire, è così che si consente a scelte evitabili di presentarsi nel fatalismo della necessità; è accettando eventi come questo che, un po’ alla volta, sotterriamo il mondo.
L’Abruzzo aquilano ormai è terra di miracoli, e, come si sa, i miracoli sono quasi sempre fandonie propagandistiche. Un vero miracolo aquilano sta in luoghi come Camarda2, dove un mondo locale, che ancora riusciva ad essere genuinamente siloniano, si ritrova con il paese sconquassato dal sisma scoprendo sulla collina di fronte ad esso una grottesca metastasi condominiale, una delle diciannove eterotopie che compongono questo delirio di dispersione urbanistica su uno spazio rurale montano. In questa geografia della lontananza, portata dall’incrocio tra una catastrofe naturale e una cornice sociale abbandonata alle logiche di profitto, si configura un asse abitativo pieno di vuoti e di discontinuità improponibili (per farvi un’idea prendete una cartina dell’attuale comune e tracciate una linea tra Assergi2 e Pagliare di Sassa2: insediamenti radi su chilometri di verde separati da diverse montagne). Oggi il comune dell’Aquila è un territorio dove la forma della città - che di solito prevederebbe un nucleo abitativo con un anello di circolazione - viene invertita e stravolta in un anello abitativo rado con un nucleo fatto dai frantumi della città originaria congestionato da un perenne traffico di esuli locali.
A chi dovesse chiedere “chi ha fatto questo guazzabuglio?” non si può rispondere “il terremoto”, perché il pasticcio paesaggistico del progetto C.A.S.E. non è che il primo segno permanente del bradisismo della politica che al terremoto sta silenziosamente e imperterritamente seguendo. Non si può neanche rispondere che è stata “la Protezione Civile”, in base a un’ingenua visione che semplifica il tutto nel paradigma della barricata, dove i cattivi sono solo gl’invasori, e in loco tutti lottano per la collettività fuori da interessi privati. Il guazzabuglio del progetto C.A.S.E. è il prodotto di un intreccio di responsabilità congiunte tra Stato e poteri locali, l’esito di un patto di non belligeranza fondato sulla reciproca non ingerenza in questioni di profitto e clientelismo.
Essendo l’amministrazione comunale aquilana – almeno a parole - di sinistra e il governo nazionale di destra, questo groviglio mette in crisi i cliché di semplificazione ideologica delle dinamiche conflittuali, incapaci di concepire in sistema intrecciato di responsabilità che lega i poteri esterni con quelli locali, la sinistra con la destra. Il senso comune si nutre di semplificazioni da cui percolare sedimenti di folklore politico, e – non potendo tracciare una linea nitida e retta tra “buoni” e “cattivi” - una responsabilità non situata né geograficamente né politicamente non è facilmente digeribile in termini propagandistici. Qui questo movimento sotterraneo di interessi particolaristici generato dall’incrocio tra la politica del profitto di Stato e un clientelismo locale fissato su una concezione feudale dell’urbanistica intesa come mediazione tra lobbies economico-imprenditorili e amministrazione comunale, ha tolto le persone dai luoghi (deportandole lontano dalla città che chiede di essere curata) e i luoghi alle persone (deturpando la campagna con complessi condominiali).
Imporre delle scelte come necessità è la chiave della strategia di shock economy usata dal capitalismo dei disastri, e sono dell’idea che Bertolaso, o meglio il sistema postcoloniale di aiuti umanitari che egli rappresenta, non abbia pensato tanto a guarire L’Aquila nel modo migliore possibile per la città, quanto a imporle una cura basata più sulle sue convenienze.
Da altero comunicatore quale egli è, il nostro commissario del “fare” dichiarò giorni fa all’opinione pubblica che se lui vede un ferito per strada preferisce caricarlo subito e passare eventualmente con il rosso, centrando così un’ottima metafora di quella che è l’essenza della sua strategia politica: l’emergenza come pretesto per l’abuso di autorità. È così che questo personaggio riesce a ostentare un “fare” insieme concreto e fittizio, che si regge, più che sulle opere, su un “far vedere” solo la parte che conviene, nascondendo eventuali eccessi osceni del potere sotto la sineddoche massmediatica. Ora sul carrozzone di Guido Bertolaso grava il sospetto di corruzione, forse perché il commissario ha provato a fare il cowboy con gli americani, e di rimpiatto un simile oltraggio ha eroso la sua machiavellica attitudine a viaggiare in equilibrio tra lecito e illecito lungo la strada delle catastrofi, dove il fine più che mai giustifica i mezzi.
Seguitare a costellare il processo di ripristino della città con queste forme di corruzione concordata tra inciuci vari porterà ad aumentare il degrado del luogo; per questo è importantissimo, imprescindibile, vitale chiedersi sempre qual è la ratio delle scelte che vendono fatte, evitando di abboccare alla questione della necessità portata dall’emergenza. Il pretesto della necessità è stato usato all’Aquila sia dai poteri nazionali che dall’amministrazione locale, che – per riprendere la metafora del nostro - ha consentito a Bertolaso, oltre che di passare col rosso, di tagliare per la campagna. Sarà stato un misto d’ingenuità, confusione, incapacità, malaffare. I poteri sono anche questo, e le situazioni difficili peggiorano certe cose. Può darsi che non se ne erano accorti; d’altra parte anche il re di Francia, prima di subire la rivoluzione, pare fosse convinto di essere un buon regnante, e che il popolo era felice di lui e del suo operato.
Dopo aver spacciato per “ricostruzione” una costruzione di edilizia popolare d’emergenza che ha usato soldi pubblici per arricchire aziende private attraverso margini di profitto impensabili in tempi “normali”, L’Aquila si accinge ora alla ricostruzione “vera e propria”, che già si annuncia nella maggior parte dei casi nei termini di un’enorme corsa al rattoppo di edifici infartuati, in frantumi, in piedi per miracolo (altro “miracolo” vero avvenuto a L’Aquila). Millantando a chiacchiere sostenibilità varie per poi tradirle nei fatti, le migliaia palazzi e i condomini cittadini danneggiati al limite del crollo rischiano di venire rabberciati a vantaggio di ditte e imprese varie che, in luogo di demolirli, li sfrutteranno per anni come vacche da mungere. La corruzione appena compiuta riguarda l’incompatibilità paesaggistica della localizzazione del progetto C.A.S.E., e comprende una questione di illegalità rispetto alla Convenzione Europea del Paesaggio; quella prossima da venire riguarderà il rattoppo di una città mimetizzato entro false dichiarazioni di pseudo-sostenibilità, e di nuovi miracoli, stavolta fatti dalle fibre di carbonio. Le linee guida sulla ricostruzione saranno l’alambicco per cercare di conferire legalità a un crimine. Chi vivrà vedrà si dice, ma qui vedrà chi morrà nei condomini rattoppati durante il prossimo terremoto, fra uno, dieci, cinquanta o trecento anni. Questo discorso del rattoppo può essere qui solo accennato, ma va sottolineato che la localizzazione delle C.A.S.E. e il rattoppo dei condomini sono eventi che hanno in comune lo sfruttamento di un disastro ai fini del profitto privato e a discapito del benessere collettivo.
In conclusione non posso non ricordare che, a partire da qualche competenza acquisita da un po’ riguardo argomenti simili, ho immediatamente – ossia per primo e per tempo - denunciato alla popolazione, ai comitati, ai mass media e alle istituzioni locali e nazionali quanto qui, ancora una volta, riporto. Inutile precisare che, escludendo qualche paternalistica pantomima, ciò che scrissi ha avuto poca attenzione effettiva da parte di chi poteva decidere per rivedere alla radice la localizzazione del progetto C.A.S.E. (ossia cambiando il criterio della vicinanza alle “frazioni” in quello della prossimità alla città). Questo progetto ha visto durante l’estate due varianti alla localizzazione che hanno in parte avvicinato le palazzine alla città, ma, ripeto, almeno la metà dei siti costituiscono uno scempio paesaggistico imposto con la retorica della necessità, ma che si sarebbe potuto evitare benissimo.
Preciso che non sono contro la persona del sindaco Cialente, che a suo tempo votai, ma, pur sperando ancora di sbagliarmi, sono rattristato e amareggiato da una serie di perplessità intorno alle sue scelte, che purtroppo riguardano anche diverse altre gravi questioni oltre quelle qui menzionate. Per quanto riguarda Bertolaso personalmente, per usare un eufemismo, non riesco a stimarlo: il mio grazie va a chi ci ha aiutato, non a chi è venuto a L’Aquila prima di tutto per aiutarsi. Spero che gli aquilani la smettano di farsi abbindolare dai miracoli di prestigiatori nazionali e locali.
L’Aquila 15-2-2010
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