Raccolgo qui dei testi che ho scritto su alcuni aspetti della gestione del processo di (ri)costruzione della città dell'Aquila in seguito al terremoto del 6 aprile 2009.
Gli scritti, a partire da una visione critico-problematica basata su prospettiva di analisi antropologico-culturale, puntano a mettere in rilievo i momenti di ingenuità, disfunzionalità, corruzione, propaganda, speculazione, profitto che minacciano il futuro della città.

L'Aquila, 10 marzo 2010
Antonello Ciccozzi

venerdì 16 aprile 2010

AD REPRIMENDAM AUDACIAM AQUILANORUM: CRONACA E ANALISI DEL PROCESSO INTENTATO DA BRUNO VESPA CONTRO IL DISSENSO AQUILANO 15-4-2010


In queste righe (pubblicate su http://ilcapoluogo.com/site/News2/Attualita/Ad-reprimendam-audaciam-aquilanorum-di-Antonello-Ciccozzi e su http://www.abruzzo24ore.tv/news/Bruno-Vespa-ad-reprimendam-audaciam-aquilanorum/16093.htm) ho riportato un commento alla puntata di Porta a Porta del 6 aprile 2010. Da un pò ho deciso di interrompere la mia partecipazione entro giornali web o comitati, per cui mi riservo di concludere eventualmente il discorso iniziato in questo articolo in altra sede.



(Prima parte)



ANTEFATTO: I FISCHI AQUILANI A BERLUSCONI

Che brutta figura hanno fatto i poteri locali e nazionali la sera del primo anniversario del terremoto aquilano: pesantemente confutati nel loro tentativo di speculare sulla solenne ricorrenza usandola come palcoscenico per una rappresentazione di efficienza istituzionale, si ritrovano castigati attraverso una liberatoria contestazione spontanea partita dalla gran parte dei cittadini radunatisi in piazza Duomo. La gente ha capito la piazzata di questo inutile consiglio comunale: la discrezione del lutto diventa pretesto per imporre il silenzio alla cittadinanza, e innestare su ciò la pretesa di usare l’anniversario per una volgare sfilata propagandistica di pret-a-porter amministrativo. In rivolta non solo “comunisti” o “no global”, ma la maggior parte della gente, gente “normale”, come quelli delle carriole, e non solo. Poi, addirittura, durante la lettura del messaggio inviato da Berlusconi, l’apoteosi: “i fischi hanno superato di molto gli applausi”, così riportava l’ANSA. Molti giornali italiani hanno stampato notizie simili più o meno stemperate, e in Europa lo stesso. Anche in America il Washington Post s’è accorto che L’Aquila - città ferita da un terremoto e stuprata da una pseudo ricostruzione finalizzata prima al profitto che alla gente - è contro il Governo.

Devo essere sincero: data l’indignazione accumulata durante quest’anno mi sento anch’io come una pentola a pressione, e non mi sarebbe dispiaciuto affatto buttare qualche genuino e catartico improperio, ma ero arrivato un po’ tardi e sia il tendone che gli spazi intorno erano già strapieni. Poi era talmente tanta la gente che già lo faceva che sono rimasto senza fiato, quasi in contemplazione estatica, ai bordi della piazza ad ammirare, ancora una volta, come finalmente succede qui da qualche settimana, una città sinceramente in rivolta. Pieno di gente che faceva casino, dentro e fuori il tendone. Tanti, e per qualcuno troppi. Un putiferio di fischi. Che emozione. Che gioia. Che brutta figura. A questo punto le cose sono due: o il Governo ha speculato sul terremoto (vai a sapere, magari facendo profitto e propaganda), o gli aquilani sono degli ingrati. A questo punto la città si è ribellata, e in un mondo retto dai media quei fischi sono fucilate[1].



UN GIUDICE PRIMO IN CLASSIFICA (E IL SUO CONFLITTO D’INTERESSI)

Così Bruno Vespa, che con la televisione ci sa fare, il giorno dopo ha pensato bene di arredare velocemente una puntata del suo “Porta a porta” per ristabilire un po’ d’ordine, mimetizzando nel titolo “L’Aquila quando rinasce?” [2] un processo ai terremotati dissenzienti. “Ad reprimendam audaciam aquilanorum!”, è l’iscrizione che ricorda agli aquilani come nel XVI secolo gl’invasori spagnoli repressero la coraggiosa ribellione popolare contro la dominazione: il viceré di Spagna Don Pedro da Toledo impose di erigere un’enorme fortezza militare, lasciando tuttavia alla storia uno dei più importanti monumenti dell’Aquila. Grazie a Bruno Vespa questo motto rinascerà degradato nella trasfigurazione “preferivate stare nei container?”. Il tutto per motivare e difendere la pretesa miracolistica di un’opera di urbanizzazione cheoltre a dare un tetto che sarebbe potuto costare molto meno, ha alimentato, con il pretesto dell’emergenza, un sistema di profitto sugli aiuti, ha assolto una funzione propagandistica attraverso l’ostentazione della monumentalità spicciola delle “new town”, e ha prodotto – a causa dell’incompetenza e della corruzione delle elite locali – una territorialità malata che peserà sulle nostre vite per lungo tempo. Oggi nel motto coniato da Bruno Vespa per difendere l’opera del “viceré” Bertolaso e quella del “sovrano” Berlusconi c’è un punto interrogativo, perché quella frase è nel nostro caso una minaccia che ci dice di stare zitti e ringraziare, di fare in fondo il nostro ruolo di abruzzesi forti e gentili, sopportando con mansuetudine, pena la gogna dello stereotipo di “INGRATI!”.

Si annuncerà una puntata fantastica per il giornalista aquilano, che si è da poco piazzato al primo posto assoluto come “personaggio più deplorevole dell’entourage berlusconiano”[3]; superando anche Emilio Fede, che però ormai per eccesso osceno e plateale di parzialità non fa più scandalo: Vespa riesce ancora a far credere a un numero consistente di persone di essere imparziale, e questo lo rende il numero uno di un ben occultato ministero della propaganda. Bruno Vespa. Non uno fra tanti, ma primo nell’affollato plateau dei cortigiani di Berlusconi. Il numero uno. Certo, si dirà che la classifica viene da un giornale - l’Espresso - che dà l’impressione di essere schierato contro il nostro attuale sovrano; ma il risultato pone in questo caso un problema su cui almeno gli aquilani dovrebbero riflettere al di là delle ascendenze politiche attraverso cui si prova forse a dividerli e distrarli dal valore comune di una ricostruzione partecipata e sostenibile.

Bruno Vespa - ricco borghese romano ormai da tempo - rivendicando origini e proprietà aquilane, esibisce un’appartenenza che gli conferisce partecipazione emotiva al dramma del terremoto. Se Vespa partecipa al pathos per la ricostruzione dell’Aquila, e partecipa al sostegno per il Governo, come fa a giudicare in modo equilibrato, ossia (equi)distante, il dissenso degli aquilani contro il Governo? Evidenziate queste premesse è ineluttabile che egli è, nella sua persona, costitutivamente e quindi aprioristicamente immerso, appunto, in quello che da qualche anno si suole definire come “conflitto d’interessi”. Già il solo essersi messo in mezzo configura, in un’apparente aporia, un piano d’ipocrisia. Vespa sostiene un Governo che sostiene delle scelte economiche, L’Aquila ha bisogno di una ricostruzione basata su priorità socio-culturali locali prima che su interessi politico-economici nazionali. Le necessità di ricostruzione della città possono andare in conflitto con quelle economiche del Governo. Se i bisogni reali della città vanno contro quelli del Governo che succede sotto il tavolo di “Porta a porta”? O fa un passo indietro il Governo o lo fa la città.

E nei fatti Vespa, come sempre, anche questa volta dà più di un’impressione di stare da una parte, e contro un’altra; di usare la sua posizione di potere mediatico e la sua presunta aquilanità per sostenere il Governo nell’affare del cosiddetto “terremoto d’Abruzzo”, contro la città, contro chi ci vive per davvero, e s’impegna per seguitare a farlo. Nei fatti Bruno Vespa dà l’impressione di essere un giudice, di uno che in un contenitore di giornalismo neutrale mimetizza alcune funzioni fondamentali di un ministero della propaganda.



IL RIMEDIO MEDIATICO

Quando ci vuole ci vuole. Riducendo il dissenso epocale che sta montando in città all’espressione di pochi ingenui autoeletti rappresentanti del “popolo delle carriole”, si perverrà a una facile sentenza di condanna d’ingratitudine, passando per l’olio di ricino dei containers.

Una carriola - con tanto di macerie all’interno - è piazzata a fare bella mostra di sé in mezzo allo studio; intorno all’oggetto gli ospiti, tra cui spicca la “destrissima” giovane ministro della Gioventù Giorgia Meloni. A suo fianco il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, uno di centro-sinistra a fare da avvocato degli aquilani, perché siamo in democrazia a un po’ di contraddittorio bisogna metterlo per onorare il principio della “rappresentazione di tutte le parti in causa”[4] e quindi giocare sulla loro manipolazione più o meno corretta, attraverso tempi e regia, dispensando sottili sgambetti o elogi a seconda della parte. Per non lasciare sguarnita la parte emotiva, compaiono anche Michele Placido che parla di Silone, e i genitori di una ragazza vittima del sisma. Arriveranno in seguito altri due “terremotati” e due “esperti”. Infine, oltre la carriola, ci sono ad arredare lo studio anche Chiodi e Cialente, presenti come siamo abituati ormai da tempo a vederli quando hanno a che fare con gente più potente di loro: sornione il primo e svaporato il secondo.

Due collegamenti esterni. Il primo ha come protagonista Guido Bertolaso, che - in gran rispolvero dopo le recenti accuse di corruzione - parla maestosamente da una sala di controllo, con la maglietta della Protezione Civile; e, sopra una grossa scritta che lascia leggere “lavori di esecuzione”, non uno ma otto monitor accesi alle sue spalle, che riempiono lo sfondo con immagini del progetto C.A.S.E.. Appare granitico il Commissario del fare, del “lavoro”, delle “c.a.s.e.”, l’eroe delle emergenze a cui Vespa ha già dedicato lo spazio che si merita in altre recenti puntate del programma, tra cui quella “Un servitore dello Stato nel mirino dei giudici”; un titolo di navigata sagacia, una presentazione che è già occasione per un elogio (“servitore dello Stato”) e quindi per un sospetto di immotivata e violenta aggressione (“nel mirino”).




CARRIOLE RATTRAPPITE

L’altro collegamento è per il movimento denominato dai media il “popolo delle carriole”, o meglio per tre cittadini che un po’ ingenuamente si prestano a fare da imputati in questa trappola tesa nel tentativo di screditare mediaticamente la genuina indignazione di una parte enorme della città. I tre sono in piazza Duomo, lo stesso luogo dell’offesa della sera prima al Governo, al freddo sotto la chiesa simbolo delle “Anime sante”; al loro fianco una ventina di concittadini con lo striscione “verità e giustizia”, davanti a tutti tre carriole con pale e secchi all’interno. Un presepe. Già è in atto il processo di rattrappimento della carriola, da simbolo di autonomia e di rivolta, a degradato elemento folkloristico. “Toro seduto al circo”, così si dice per descrivere a sottrazione di valore a persone o oggetti attraverso una semplice operazione di de-contestualizzazione. Già da subito la carriola è sottilmente declassata a conca di rame dell’abruzzese “forte e gentile”, marker identitario e stereotipo tradizionalista del montanaro che, come abbiamo capito da tempo, facilmente degenera in sottinteso eufemismo di “cafone-allocco”.

Con altri concittadini mi trovo, appena fuori dalla gittata delle telecamere, ai bordi di questa mediatica graticola dell’ingratitudine; siamo da subito perplessi per questa iniziativa. Sarà perché scopriamo presto che si tratta di una finta diretta, di un programma che andrà in onda due ore dopo (e eventualmente c’è tutto il tempo di tagliare proteste forti, che così sono scoraggiate). È abbastanza chiaro che si giocherà a ridurre a retorica sconclusionata i contenuti della carriola-conca, al fine di riempirli di ottusa ingratitudine. Disapproviamo variamente lo slancio dei tre che si sono prestati al gioco di Vespa in quel modo che già pare grottescamente ingenuo; ma, come si suol dire, nel rispetto della volontà altrui, restiamo a vedere un po’ inquieti come si sviluppa la cosa. Settimane d’impegno civile e di risultati storici già minacciano di finire degradati al quadretto di qualche ingrato borghesotto che, stordito dal terremoto e probabilmente indottrinato dai comunisti, farnetica sparutamente poco chiare invettive contro il palese miracolo del Governo benefattore, illudendosi di poter fare l’operaio che ricicla le macerie; una minoranza di scriteriati, generosamente e pazientemente ascoltati solo per paternalistico spirito di sacrificio democratico.

Il processo ha inizio. Ecco le fasi salienti. Alla ministra Meloni il compito di iniziare a introdurre l’asse principale di discriminazione: quando Vespa, coinvolgendosi attraverso un “noi” di apprensiva partecipazione, le chiede genericamente se “ce la faremo”, ella risponde che francamente ce l’abbiamo già fatta perchè in Umbria dopo tredici anni qualche famiglia vive ancora in un container. La cornice è pronta: da un lato i containers dell’Umbria, dall’altro le favolose c.a.s.e. del duo Bertolaso-Berlusconi.

Tale e quale al bieco santino elettorale propinato a tappeto ai terremotati aquilani per le elezioni provinciali: “Umbria e Marche 1997, Governo Prodi, ad oggi ancora Container per famiglie – Abruzzo 2009 Governo Berlusconi, ad oggi Case antisismiche per famiglie”; poi sotto la scritta: “Il governo dei fatti, la differenza che conta!”; e dietro: “la dignità dell’uomo e della famiglia prima di tutto!”. È raro vedere una prova così volgare di degradazione del diritto a favore. Ecco che già si delinea la finestra di de-contestualizzazione del titolo del programma: dalla maschera del titolo “L’Aquila quando rinasce” si passa a “i containers o le c.a.s.e.”, “la protesta o il lavoro”, “le opinioni o il fare”. Varie coniugazioni del rozzo, antidiluviano manicheismo del regime mediatico di Berlusconi mimetizzato in forma di democratica legittimità: “l’odio o l’amore”.

In seguito parte un servizio sul centro storico deserto, dove, dall’eloquente concretezza della città in macerie, un anziano signore, uno che più popolare non si può, che si dichiara felicemente residente nel progetto c.a.s.e. (deportato a 10km dalla città, quando si sarebbe potuto costruire in prossimità della periferia), denigra pesantemente e senza mezzi termini le manifestazioni del popolo delle carriole, sottolineando l’impossibilità di rientrare subito e l’ipocrisia della pretesa che lo spalare le macerie possa essere lavoro concreto (sentenzia che: “a dirlo così è tutto facile, io mò direi a quelli con le carriole: bene, per un anno, gratis, lavorate…levate, levate…ta vedè come se la squagliano!”). Il significato simbolico della protesta, ampio, che dovrebbe riguardare una richiesta di autonomia nella ricostruzione, di riappropriazione partecipativa della città, è già appiattito a quello pratico del lavoro; e ciò è proferito non da Bertolaso, ma da un anziano aquilano ineluttabilmente popolare (già di per sé emanante saggezza e autenticità) che riprende un concetto identico a quello espresso proprio da Bertolaso per denigrare il movimento. Il rito è confuso con la pratica, l’emblema è ridotto all’oggetto.

Quando la parola va ai tre che si sono variamente e imprudentemente fatti eleggere a “rappresentanti del popolo delle carriole” s’inizia con la giostra dell’ingenuità, e non solo perché nessuno si accorge che a questo punto già ci sarebbe da scardinare il frame imposto dalla conduzione: la cornice dei containers della Meloni e delle carriole impietosamente degradate dal vecchio aquilano da simbolo di rivolta a indice di lavoro manuale. No: il primo intervistato si sbilancia dichiarando di parlare a nome di tutta la città, rivelando così non solo una pretesa eccessiva, ma anche inesperienza riguardo i più elementari codici di movimento rispetto alla questione fondamentale della “rappresentatività” (che Vespa userà in chiusura di trasmissione sottolineando beffardamente che “quando c’è la democrazia le città decidono di nominarsi i loro amministratori”). Subito dopo l’intervistato annuncia di avere quattro domande, ma elenca da un foglio solo tre punti confusi, di cui unicamente il primo è una domanda comprensibile sul mancato allarme, il secondo è un’osservazione confusa, il terzo un vago auspicio. Dopo una presentazione del genere Vespa deve aver capito subito che può giocare al gatto e al topo, e chiede ad un altro: “che cosa non vi convince di questa ricostruzione?”, per avere una risposta titubante, sfocata e retorica sulla “differenza tra quello che si pensa nelle stanze del potere e quello che invece si pensa”, seguita da una poco incisiva lamentela per l’impedimento ad occuparsi da subito delle case, e da un’imprudente accusa alla Meloni per non essere venuta a L’Aquila di persona.

A questo punto Vespa inizia a percorrere la strada dell’ingratitudine da ottusità bacchettando le ansie di rientrare a casa, dichiarando che in Friuli, a Gemona: “le persone sono state messe nei containers e poi sono andate negli alberghi della costa. A nessuno è stato consentito di andare nel centro di Gemona a riprendersi casa sua, perché purtroppo ci sono delle priorità, ci sono delle stazioni di via crucis da rispettare […]. Sto parlando del Friuli dove la ricostruzione è stata meravigliosa, al contrario di quella della Campania”. Attenzione, si delinea qui la chiamata in causa di una griglia stereotipica importante: a Nord i terremoti virtuosi, a Sud quelli viziosi; e la minaccia per gli aquilani di finire nel “girone dei dannati” con l’accusa d’ingratitudine.

Poi interpella la Meloni, la quale - avendoli fatti qualche volta i cento chilometri tra Roma e L’Aquila - si ritrova il regalo insperato di poter sostenere che: “rischiamo di non accendere adeguatamente i riflettori sul lavoro che è stato fatto!”. Siamo al grottesco: dopo un anno di propaganda a tappeto sulla città, dopo una sequenza martellante di quotidiane passerelle mediatico-propagandistiche in cui solo nei cessi - e nemmeno sempre - si poteva stare senza telecamere, dopo tutto questo alla ministra viene fornita su un piatto d’argento l’occasione di affermare che i riflettori non sono stati accesi abbastanza sul miracolo aquilano. Può andare peggio di così? Sì.



LA FUCILAZIONE

Il momento topico si apre dopo un po’, quando la linea torna a piazza Duomo, i figuranti con lo striscione “verità e giustizia” si sono dileguati, un po’ per il freddo un po’ per la prima figura, e la terza rappresentante del popolo delle carriole prende parola dichiarando, stavolta efficacemente, che le carriole “hanno voluto squarciare un velo sul finto miracolo aquilano che l’informazione sta facendo passare da un anno su questa città”. Per qualche istante pare vada meglio. L’esposizione prosegue un po’, ma Vespa non accetta le accuse di mistificazione; sta subendo l’efficacia del tono puntuale sincero, così devia forzosamente sulla domanda chiave dell’impianto accusatorio: “preferivate stare nei container?”. C’è titubanza nel rispondere, si sente dall’altro carriolante un vago e impaurito: “ma che modo è di ragionare!?!”. Vespa prontamente coglie che è il momento dell’affondo. La domanda viene reiterata fra il conduttore e l’inviata cinque volte, con serrata severità, in un atto di violenza verbale che svela un’ossessione da inquisitori. A rivedere il tono e i modi di questi “giornalisti” provo fastidio. Mi sento offeso, guardo più volte le immagini di questa “tonnara” sotto la chiesa delle Anime Sante, penso alla fandonia del “rappresentare tutte le parti” con qui questi millantano di fare informazione corretta, vedo miei concittadini, persone che vivono un dramma enorme e cercano di fare qualcosa, offesi profondamente come se fossero dei cialtroni delinquenti. Mi viene da vomitare. L’intervistata dichiara che la domanda è mal posta, ma, senza spiegare perché, dice che si rifiuta di rispondere. La sensazione della trappola è percepita, ma non arriva ad essere razionalizzata e rilanciata contro l’aggressore. In questo contesto il rifiuto di rispondere suona come una resa, è l’errore più grave. Qui un conduttore scorretto può sfondare. Ed è quello che avviene. Siamo allo sciacallaggio semiotico, e Vespa ora sembra un avvoltoio che, in un impeto crescente di frenesia alimentare, si avventa sui carriolanti che vede già carcassa.

E non è solo: in un clima di forte e sempre maggiore agitazione, l’inviata coglie l’attimo e entra anch’essa in frenesia, chiedendo molto aggressivamente ad un altro dei tre, quasi gettandoglisi sopra: “scusi, allora qual’era l’alternativa secondo lei?!?”. La risposta data abbozza delle argomentazioni spendibili ma purtroppo mescolate in modo tentennante e confuso: “l’alternativa non era fare quelle case, che è solo la terza fase, quelle sono definitive in qualche modo. L’alternativa era…cioè, voglio dire, dal terremoto del Friuli adesso ci stanno quindici anni vent’anni di differenza”. Vespa interrompe con inclemente fiscalità: “trentaquatto per la verità!”, come se si trattasse di un punto che inficia l’intero discorso (mentre semmai lo andrebbe a rafforzare). Dice “per la verità”, come se qualcuno stesse mentendo. L’intervistato prosegue: “la tecnologia va avanti, ci sono casette che sono molto migliori di quelle che hanno realizzate qui sopra”.

Vespa chiede allora, con un tono di scocciato paternalismo che è già giudizio inquisitorio: “dove le ha viste?!? dove stanno?!?”, poi subito prosegue agganciando la ramanzina di fondo: “in Umbria, alcuni, gli ultimi, pochissimi per fortuna, sono ancora nei container!!!”, per seguitare, scandendo con tono severo e lapidario: “vorrei sapere in quale zona del mondo ci sono delle sistemazioni, a pochi mesi da un terremoto, migliori di quelle che sono state fatte a L’Aquila. Dove?!?”. Non serve che l’intervistato abbia già risposto, durante la domanda, titubante ma sincero, e impedito dal volume del microfono abbassato dalla regia: “a Onna per esempio” (infatti a Onna Berlusconi inaugurò indebitamente le case d’emergenza donate dalla regione autonoma del Trentino, e finite prima di quelle del Governo, Vespa celebrò la farsa, con il sindaco dell’Aquila in trasmissione che non si azzardò a svelare la finzione). Non serve. Perché, già prima della fine della domanda stizzita di Vespa, la regia alza il volume su un puntuale applauso del pubblico; quindi tra lo scrosciare di mani subito il conduttore dà un’altra indispettita stoccata, il colpo di grazia. Infatti c’era una sorpresa: “è bene che io faccia vedere il pubblico, perché non è una clac ma sono i Vigili del Fuoco, e li ringrazio anche a nome vostro se permettete!. Va bene?!? Ecco qua!!!”.

Tra mixer e regia devono aver fatto un lavoro di gran tempismo ad alzare il volume in sala, perché gli applausi, pur non essendo molti, sono partiti al momento giusto e sono stati da subito generosamente amplificati, producendo un piccolo oceano di frastuono. L’inquadratura va alla ministra Meloni che applaude e scuote la testa sdegnata con la bocca corrugata e gli occhi spalancati che invadono schermo, poi la regia stacca stretta su un vigile che applaude. La sentenza d’ingratitudine è solennemente pronunciata, la fucilazione avviene attraverso il microfonicamente simulato fragore dell’applausino dei Vigili del Fuoco, gli eroi indiscussi dell’emergenza, riciclati ora come autorità morale e come esecutori di una condanna partita dall’accusa del vecchio aquilano. Una condanna severa contro la “clac” dei carriolanti, che - dulcis in fundo - Vespa si cura di redimere in estrema unzione dal peccato originale, ringraziando i Vigili al posto loro. Terremotati ingrati!




MI RITROVO IN MEZZO

Come ho prima detto, ero lì al bordo della scena insieme ad altri dissenzienti come me che - sapendo che mi ero occupato in dettaglio della questione “case/containers” da subito e vedendo una deleteria indecisione negli intervistati - mi spronavano caldamente ad intervenire in un vernacolare “dai, vagli a dà ‘na mano che stann’a ffa na figur’e mmerda”. L’invito aumentava con l’aumentare della tensione. Molte delle persone orbitanti nella magmatica sfera della cittadinanza attiva avrebbero potuto rispondere forse meglio dei tre sotto fucilazione, non perché più “bravi”, ma perché più addentro alla questione sin dall’inizio: il caso ha voluto che questi carriolanti siano entrati nel dibattito post-sismico da poco tempo, e siano perciò meno smaliziati sulla questione delle tipologie abitative emergenziali, su costi e possibilità alternative (altre case rispetto a quelle imposte dal Governo e altri container rispetto a quelli dei terremoti passati). Queste furono questioni del dibattito cittadino fino all’estate scorsa.

Paradossalmente, rispetto a un inizio scadente, gl’intervistati non sono andati “male” rispetto ai contenuti nella fase topica, ma hanno ceduto all’attacco a causa di una poca puntualità, chiarezza, incisività. È anche questo un elemento che rivela la faziosità di Vespa e rende ancora più sospettabile di tradimento la sua proclamata apprensione da appartenenza verso le sorti della città. In tutti i modi, la rabbia per quello che vedo supera la ritrosia e mi faccio convincere. Glielo devono dire loro al tanto informato Bruno Vespa che non ci sono solo quelle c.a.s.e. e che non ci sono solo i container del passato? Possibile? Ho da tempo notizia che lo sa, quindi lo nasconde. Provo rabbia. Così, mentre lo studio celebra gli applausi sparati dai Vigili ingaggiati per l’occasione e scoperti a sorpresa per il gran finale, vengo portato dentro la scena; uno dei tre mi vede e chiede immediatamente all’inviata di farmi parlare.

Vespa seguita subito, sempre più lapidario e ad alta voce: “la domanda è dove nel mondo è stato fatto di meglio, dove?!?”. L’inviata m’invita a rispondere, e lo faccio con queste parole: “credo che questo sia un modo scorretto di comunicare perché non si può ridurre tutto a un’alternativa polare, ossia a una logica del terzo escluso. Non è questione ‘o accetti le c.a.s.e. o i container’. Il punto è questo: le c.a.s.e. sono costate cifre enormi, le piastre antisismiche sono state motivate come necessarie, quando non sono necessarie. Ci sono tipologie costruttive che permettono di evitarle”. Il padrone di casa abbassa nettamente il tono di voce e mentre ancora parlo mi dice: “questo è un suo parere, questo è un altro discorso”. Ribatto immediatamente in modo deciso: “no! Non è un mio parere, non è un mio parere, questo è un fatto”.

Le emissioni si accavallano. Mentre parlo il conduttore si blocca un attimo, china la testa, si tocca la fronte con la mano destra. Parte il campanello della trasmissione insieme alla chiassosa sinfonia del jingle della sigla, il gong che all’occorrenza mimetizza la censura che Vespa pratica sistematicamente nei momenti di empasse. Il conduttore annuncia: “allora, scusate, scusatemi, io faccio entrare due persone, scusate….forse ci aiutano un momento”. Invita i professori Andrea Carandini e Pierluigi Nicolin, mentre mi indica e promette all’inviata: “adesso torniamo Vittoriana, calma, calma…vorrei chiedere proprio per rispondere a questo signore, proprio un parere a Nicolin”. Ricevo da subito l’impressione che ho messo in mezzo al discorso il tema del profitto sottolineandolo come scelta fuori dalla necessità, perciò la censura va in porto. La deriva pericolosa del profitto viene deviata e estinta, grazie anche alla ripresa smania degli altri rappresentanti del “popolo delle carriole”.

Infatti, per il resto della trasmissione chiedo all’inviata di poter proseguire il discorso che mi è stato interrotto, ma inutilmente. Fuori dal collegamento ella confabula con la cuffia, si consulta con la regia, mi dice, “sì, sì, adesso la faccio parlare al prossimo collegamento”; ma puntualmente mi evita, poi inizia a dirmi che il mio intervento “non era previsto”. I tre delle carriole non manifestano nessun tipo di coordinamento, e in qualche caso, specialmente ora che le acque si sono calmate, mi pare che si stia lì a fare a gara tra chi riesce a farsi dare il microfono dall’inviata Vittoriana Abate, che così sceglie secondo i suoi comodi. Essendosi piazzato davanti, chiedo due volte a uno di loro, che si stringe a “Vittoriana” chiamandola per nome, la cortesia di aiutarmi a finire di parlare, ma non c’è da fare: pur essendo lo stesso che sostiene di esprimersi a nome di tutta la cittadinanza mostra di non ascoltare nemmeno chi gli sta di fianco, così mi ritrovo in concorrenza con uno che non rivela la bontà di sacrificare un’occasione di farsi vedere in tv.

Tra le “truppe della liberazione aquilana”, di cui a mio modo anch’io mi fregio di far parte, oltre a conclamate dosi di storicizzabile audacia, non si è immuni dai soliti effetti perversi del collettivismo che con varia incidenza periodicamente si manifestano. Voglio dire che in quest’esercito di condottieri più o meno mancati scarseggiano i soldati semplici e ci si scopre a volte in un congestionante pullulare di tratti o disturbi narcisistici più o meno conclamati, manie di grandezza, variamente striscianti, eccessi di autostima, protagonismi vari. Così, dopo un anno di ortodosse lotte varie contro Berlusconi e Bertolaso, mi ritrovo all’improvviso a chiedermi chi è più coglione: io o questo che mi sta di fianco. Nel dubbio lascio perdere. Prendersela con le istituzioni, con il potere, con i padroni o che dir si voglia può avere un che di romantico che rende dolce l’antagonismo; ma scoprirsi - fuori dalla grazia di qualsiasi elementare grammatica ribelle - a fare a gomitate in questo modo, anche tra chi “la Bastiglia” la dovrebbe assaltare (e poi nel nostro caso l’”assalto alla Bastiglia” sarebbe difendere la “baracca”), è patetico e avvilente. Così dopo poco mi tiro indietro, e rimango sconcertato a osservare questo circo. Mi sembra di stare in un casting di qualche reality. Se lo avessi immaginato non mi sarei fatto trascinare nemmeno a forza. Ma ormai è fatta.

Quindi, mentre mi ritrovo riconfermata la censura in modo ancora più sottile anche grazie a quest’efflorescenza di varia umanità, l’intervistato “accreditato” interviene e fa un ulteriore regalo a Vespa riguardo l’opposizione “container-case”. Non scardina la polarità precisando che ci sono molte tipologie di case (meno costose) e molte di containers (più vivibili); ma, dopo aver seguitato dare delle proclamazioni a nome dell’Aquila intera, si assume come esempio sostenendo che per lui l’alternativa è casa sua, affermando che il succo del problema sarebbe che il progetto c.a.s.e. è stato destinato non solo a chi rientrerà a casa tra quindici anni, ma anche a quelli che, come lui, sarebbero potuti rientrare a casa assai prima, in tre mesi dice.

Questa dichiarazione - oltre a magnificare il progetto c.a.s.e. per i quindicimila che hanno aspettative di rientro di molti anni - dà a Vespa l’occasione di annunciare un solenne “troppa grazia!” per questo “giovanotto” che ha avuto pure una casa che non si meritava; e quindi subito dopo bacchettare il sindaco Cialente imputando a lui l’assegnazione scriteriata delle c.a.s.e., e poi i ritardi per la ricostruzione. La risposta del sindaco a queste gravi accuse - utili di riflesso alla redenzione della Protezione Civile da qualsiasi errore che anzi risulta santificata per un miracolo finanche eccessivo - è, come sempre, inconsistente e spesso incomprensibile. Non stupisce che, per tutta la trasmissione, il nostro primo cittadino abbia fatto passivamente da discarica istituzionale, sorbendosi ogni critica d’inefficienza, senza opporsi minimamente al disegno di Vespa di attribuire tutti i meriti al Governo e alla Protezione Civile e tutti i demeriti all’amministrazione locale (che certo ne ha, ma non da sola).

Comunque, lasciando stare il Sindaco, ecco l’imparzialità di Bruno Vespa. Qualcuno penserà che si trattava di tre sprovveduti, diventati al massimo quattro gatti col sottoscritto, ma quello che è andato in scena nella data cruciale dell’anniversario del sisma è stato un processo mediatico contro il diritto della città di esprimere dissenso verso l’operato del governo, strozzando un dibattito complesso e articolato in una grettamente violenta polarizzazione “case o containers”. Lì non c’erano solo loro o io, c’erano anche le migliaia di persone che hanno sostenuto le carriole; ma non solo, e questo vorrei che si capisse: lì c’era il diritto di una città di non essere stuprata da una (ri)costruzione votata prima al profitto che alla gente. Lì è stato posto un paletto di senso comune nazionale secondo il quale chi all’Aquila dissente è ingrato. Questo non è accettabile. Domenica sto con le carriole, che avranno tanti difetti, ma almeno vogliono bene a L’Aquila.

L’Aquila, 15-4-2010



Antonello Ciccozzi

Ricercatore di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi dell’Aquila, cittadino indignato.

A scanso di equivoci preciso che non sono legato organicamente al cosiddetto “popolo delle carriole” (credo nessuno lo sia, ma dai media potrebbe apparire una realtà diversa), o a comitati vari (per essere precisi l’unico comitato a cui diedi adesione formale è “un manifesto per l’Aquila” che però da vari mesi non è più attivo). Partecipo da subito dopo il terremoto al dibattito e alle pratiche sull’Aquila post-sismica come elemento di “cittadinanza attiva”, nella mia soggettività di studioso di tematiche socio-culturali e nel mio comune sentimento di persona incrollabilmente incantata dalla sua città. Ciò senza pretese di rappresentare nessuno, ma coltivando confluenze e discutendo attriti nel traffico di questioni che ci riguardano come cittadini.

È chiaro che esiste a L’Aquila un movimento - ancora in fase aurorale e quindi non inquadrabile facilmente in etichette precostituite - che, tra contrasti, contraddizioni, errori, ingenuità e problemi concreti, si pone l’obiettivo difficile e necessario di un processo di riappropriazione del diritto fondamentale dei cittadini a partecipare alla ricostruzione. Mi sembra positivo che si delinei una certa convergenza su un’idea di ricostruzione che si vorrebbe concretamente sostenibile e finalizzata al benessere a lungo termine della città (e non al profitto immediato di attori esterni). Sono dell’idea che questa visione sia vitale per L’Aquila in quanto esprime un diritto irrinunciabile: la città non può essere ricostruita a partire da una programmazione primariamente eterocentrata o elitaria, ma ha bisogno prima di tutto di un processo di autorappresentazione derivante da una visione condivisa entro cui dare significato a un evento fondativo (come la catastrofe che ci ha colpito) per tradurlo collettivamente in pratiche adeguate al senso dell’abitare specifico di chi è nel luogo. Per questo vedo in questo fervore per la partecipazione un evento complessivamente positivo per la città, e anche un caso esemplare per la Nazione. Poi, per quanto mi riguarda, il tutto non vuol dire pretendere illusorie e ideologiche ricostruzioni solo “dal basso”, ma significa rifiutare l’estromissione della cittadinanza dalla ricostruzione, rivendicando un diritto realmente vincolante alla negoziazione dei processi decisionali con le istituzioni locali e nazionali.

lunedì 12 aprile 2010

PROPOSTA DI RIPENSAMENTO DELLA LOCALIZZAZIONE DEL PROGETTO CASE 29 GIUGNO 2009

qui c'è il testo integrale che il 29 giugno inviai, alla Protezione Civile (alla redazione di Abruzzo e Noi e alla persona dell'ing Mauro Dolce), e per conoscenza ai comitati cittadini, con delle proposte di revisione della localizzazione dei siti del progetto C.A.S.E..
Il testo riprende i temi che durante tutta la fase di decisione della localizzazione ho cercato di portare avanti presso le istituzioni, sottolineando non solo elementi di contestazione, ma, appunto, proposizione di alternative che non sono state seguite. Oggi ci troviamo a dover fare i conti con una territorialità malata a causa di una pseudo ricostruzione finalizzata più al profitto extralocale che al benessere della popolazione coinvolta nella catastrofe portata dal sisma.

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PROGETTO C.A.S.E.: PROPOSTA DI REVISIONE DELLA LOCALIZZAZIONE DI ALCUNI SITI

Il progetto C.A.S.E. (che L’Espresso del 2 Luglio ha definito un “mostro urbanistico”) presenta i seguenti problemi inerenti la localizzazione di alcuni siti:

in diversi casi sono state scelte zone rurali interne al comune dell’Aquila, mentre le zone prossime alla città non sono state toccate; questo significa che molti aquilani saranno deportati ai margini rurali del Comune, dove tali zone saranno deturpate nel paesaggio da condomini, ossia tipologie abitative a connotati urbani.

Pertanto si potrebbe chiedere che l’allocazione di alcuni siti, quelli previsti per il progetto C.A.S.E. in ambito rurale intra-comunale, sia rivista dando priorità a due criteri di PROSSIMITA’ e DIFFERENZIAZIONE TRA AMBITO URBANO E AMBITI RURALI: questo significherebbe prevedere un riavvicinamento dei siti più lontani dai margini della periferia urbana in base al criterio “il più vicino possibile alla città”; e la sostituzione, per quanto riguarda le aree rurali interne al Comune, delle C.A.S.E. con le casette in legno già previste dal progetto M.A.P. per i comuni rurali.

IDENTITA’ URBANA E CONTINUITA’ PAESAGGISTICA

Il concetto di “città-territorio” è stato dato entro un’approssimazione grossolana; e questo errore si è posto alla base di una visione isotropa delle caratteristiche geografiche, antropiche e paesaggistiche del comune: se è pensabile a un’urbanità estesa della città dell’Aquila, tale concetto non può non tenere conto che un’unità urbanistica è improponibile laddove vi è una rottura della CONTINUITA’ PAESAGGISTICA.

Questo sistema di rotture della continuità paesaggistica è, nell’aquilano, incarnato dalle discontinuità portate dalla montuosità del territorio. Tali discontinuità implicano differenziazioni geografiche che condizionano la produzione dell’identità culturale in termini di varietà, di differenza. Se una città estesa è pensabile grossomodo da Preturo a Bazzano, è assai improbabile, se non improponibile, un’idea di città laddove dove le colline separano materialmente i luoghi. Camarda, Roio Piano, Pagliare di Sassa, Collebrincioni, Arischia, non saranno mai integrabili nel territorio urbano in modo pieno e funzionale: ci sono montagne che chiudono il paesaggio.

Per fare un esempio, già l’ambito territoriale di Paganica e Tempera, pur vicino geograficamente a L’Aquila, presenta delle differenze storico culturali (rilevabili attraverso differenze nei dialetti, differenze nella percezione e nell'espressione del sé collettivo) esito di una sedimentazione storica in cui la separazione geografica della continuità paesaggistica portata dal monte di Bazzano costituisce un fattore di (ri)produzione di varietà interna). Cinque chilometri in linea d’aria possono diventare, quando c’è un monte a fare da confine, una distanza enorme da un punto di vista storico-culturale.

IPOTESI SUL PROCESSO DI SCELTA CHE HA PORTATO ALL’ATTUALE SCENARIO ALLOCATIVO

Il processo di scelta che ha generato la situazione attualmente attiva ha riguardato un iter di negoziazione tra Protezione Civile e poteri istituzionali locali. A causa della necessità imposta di scelte veloci, tale processo ha visto la società civile aquilana totalmente estromessa da qualsiasi possibilità di opinione.

A seguito riporto una serie di dichiarazioni degli attori istituzionali coinvolti in tale processo di scelta:

Cialente:

“Hanno deciso tutto loro [la Protezione Civile], io ho solo impedito che realizzassero un'unica mostruosa new town. Ci dovremo ora impegnare a non trasformare questi quartieri in tanti piccoli ghetti”.

“le richieste per l'individuazione delle aree sono state tre: no alla New Town, distribuire sul territorio i nuovi insediamenti e localizzarli il più vicino possibile alle frazioni”

Bertolaso:

l’allocazione è stata decisa “sulla base di un lavoro congiunto che è stato portato avanti dagli urbanisti del comune che ci dicevano: “qua si può fare, qua non si può fare”.

Bertolaso ha dichiarato che gli urbanisti del Comune hanno attuato una preselezione di siti da tutelare dal progetto C.A.S.E., e successivamente, sul territorio rimanente da tale preselezione, si sono fatte le scelte: il “qui” della Protezione Civile è stato preceduto dal “qui no” del Comune.

Queste alcune dichiarazioni di chi si è posto in modo critico nei confronti delle scelte fatte:

Antonio Perrotti:

“La scelta delle aree non dipende solo da criteri idrogeologici. Sono stati risparmiati dall'esproprio grandi lotti in prossimità del centro storico, di proprietà di aristocrazie terriere e immobiliari, e che tra qualche anno varranno oro “ Qualche esempio: “Gli ettari di Lenze di Coppito, inseriti già nel Prg vigente come area di espansione edilizia e direzionale, vicina all' ospedale e all'università potrebbero essere stati salvati dalla divina provvidenza essendo oggetto di un accordo di programma che vede protagonisti le banche e anche gli enti ecclesiastici. Le piccole new town, sono in molti casi cunei di urbanizzazione che moltiplicheranno il valore delle terre circostanti. Un esempio sono i siti di Bazzano e Sant'Elia, intorno a cui da anni insiste la proposta di un programma di riqualificazione urbana”. Secondo questa lettura, insomma, gli aquilani vengono allontanati dalla loro città per salvaguardare, sotto le antiche mura, gli spazi di manovra politica ed economica della ricostruzione.

Me medesimo (Antonello Ciccozzi):

[in riferimento alle richieste per l'individuazione delle aree fatte dal Sindaco] “Sarebbe forse stato più assennato dire: localizzare gli edifici con caratteristiche architettoniche urbane il più vicino possibile alla città consentendo a tutti gli aquilani di restare limitrofi alla città, pensando per le frazioni un’edilizia sostenibile dal punto di vista paesaggistico e identitario”.

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In al modo, dopo aver superato la “New Town” si supererebbe il rischio, forse maggiore, della “New Town dis-integrata”, per pervenire finalmente a un’allocazione fatta in base al criterio degli anelli di prossimità, nel rispetto della differenziazione intra-comunale tra ambiti urbani e ambiti rurali, riavvicinando il progetto C.A.S.E. alla città e proponendo per i paesi il progetto M.A.P., già attivo per i comuni rurali.

Sarebbe opportuno chiedere a voce alta che la Protezione Civile inizi a pensare anche all’allocazione di moderni containers per supplire alle necessità abitative di chi non rientrerà nel piano CASE, dei ritardi inevitabili alla consegna dello stesso (che lieviteranno nel caso si voglia rivedere la localizzazione dei siti rurali), e delle restanti 20000 persone circa, che pur non avendo un’inagibilità E, avranno tempi di rientro oltre l’autunno

IN CONCLUSIONE

E’ fortemente ipotizzabile che i criteri di scelta delle aree siano stati orientati dalla necessità di preservare la geografia urbanistico-economica già abbozzata dal PRG del 2004: sono stati “salvati” i terreni vicini alla città e agli interessi economici legati al Demanio, alla Curia e alle lobbies imprenditoriali. Per preservare “L’Aquiletta” (le reti di comparatico e meta-comparatico che fondano e sostengono da decenni i poteri tradizionali locali) dalle conseguenze del terremoto, si è scelto sacrificare la qualità della vita di molti aquilani, che dovranno vivere lontani dalla loro città, e la qualità del paesaggio di molte zone rurali che saranno “inquinate” da condomini urbani.

Chiederei, in nome del diritto alla trasparenza, e faccio tale proposta ai comitati riuniti sperando che l’adottino, agli urbanisti del Comune che hanno operato una pre-selezione di terreni da non toccare, una lista dettagliata di tali terreni, con la motivazione delle scelte.

Contestualmente sarebbe opportuno che chi ha competenze in merito (mi vengno in mente l’arch. Antonio Perrotti o l’urbanista Francesco Tironi), stilasse una lista di aree proponibili in base al criterio di massimizzazione della prossimità rispetto ai limiti della periferia urbana, per consentire, appunto, agli aquilani di stare il più possibile vicino alla città; e ai paesi separati dalla città da discontinuità naturali (le montagne) di non venire irrimediabilmente deturpati.

LE RIPERCUSSIONI ANTROPOLOGICHE DEL PROGETTO CASE 22 marzo 2010

intervento pubblicato sul numero 16 del 2010 di "MU6 - il giornale dei musei d'Abruzzo"


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DOMANDA: Già da appena furono resi noti i siti del progetto C.a.s.e. hai espresso una forte critica sulla loro localizzazione. A cose fatte, quali ti sembrano gli aspetti tangibili più critici derivanti da tale scelta emergenziale? da un punto di vista antropologico, quali ripercussioni avranno sulla società gli squilibri urbanistici prodotti da tale progetto?



RISPOSTA: Il progetto C.A.S.E. – a causa di una localizzazione corrotta e totalmente ignorante rispetto a criteri antropologici minimi di sostenibilità paesaggistica – si è risolto, per circa metà dei “new village”, in una serie di metastasi condominiali sorte in ambiti rurali. Questi frammenti di città postsismica, esplosi nei territori dei paesi, hanno deteriorato contemporaneamente sia la città sia la campagna, in un disordine urbanistico che, impoverendo la varietà degli habitat culturali, produce entropia a vari livelli.

La geografia della distanza fabbricata attraverso quest’arcipelago eterotopico tratteggia una sorta di atollo abitativo che, da soluzione a problemi causati dal terremoto della natura, si rivelerà sempre più come problema indotto dal bradisismo della politica, e che necessita, ove possibile, di ulteriori soluzioni o di un contenimento dei danni. Lontananza, separazione, disintegrazione, assenza di servizi sono problemi che non si sarebbero posti se si fosse seguito un criterio - praticabilissimo ma sconveniente per le lobbies urbanistico- imprenditorili aquilane - di prossimità alla cinta urbana.

Oggi il territorio comunale deve affrontare - proprio a causa del dove sono stati localizzati questi insediamenti - un processo di spaesamento che si manifesta doppiamente perturbante: per gli abitanti deportati lontano dai loro luoghi di origine, e per i borghi deturpati da edifici inappropriati. In molti casi già assistiamo agli esiti di una migrazione interna che ha prodotto un dualismo identitario tra “locali “ e “trasferiti”. Se i “locali” si sentono invasi da architetture che sono percepite come corrompenti, i “trasferiti” finiscono col percepire - a causa della distanza paesaggistica rispetto ai luoghi di provenienza - il tempo dell’attesa come un vacuo tempo sospeso, angosciosamente nostalgico, che spesso si cerca di lenire con un isterico nomadismo a corto raggio verso i resti della città (simbolo della quotidianità perduta). Inoltre la distanza tra questi micro insediamenti li rende ostici per la strutturazione di una nuova quotidianità collettivamente urbana, e tende a ridurre il territorio comunale a spazio di separazione in cui i legami comunitari e di socialità sono drasticamente inariditi (fattore che induce, tra l’altro, all’aumento di tensioni che si scaricano in ambito domestico).

In conclusione direi che al momento il morbo dello spaesamento ha attecchito a L’Aquila a causa di soluzioni malsane che hanno edificato distanza in forma di esilio e, conseguentemente, di attesa. Così si delinea, nel qui, il paradosso di un altrove, che - in quello che sarà il lunghissimo frattempo della ricostruzione - tende a secernere un eccesso di alienazione.