Raccolgo qui dei testi che ho scritto su alcuni aspetti della gestione del processo di (ri)costruzione della città dell'Aquila in seguito al terremoto del 6 aprile 2009.
Gli scritti, a partire da una visione critico-problematica basata su prospettiva di analisi antropologico-culturale, puntano a mettere in rilievo i momenti di ingenuità, disfunzionalità, corruzione, propaganda, speculazione, profitto che minacciano il futuro della città.

L'Aquila, 10 marzo 2010
Antonello Ciccozzi

lunedì 12 aprile 2010

LE RIPERCUSSIONI ANTROPOLOGICHE DEL PROGETTO CASE 22 marzo 2010

intervento pubblicato sul numero 16 del 2010 di "MU6 - il giornale dei musei d'Abruzzo"


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DOMANDA: Già da appena furono resi noti i siti del progetto C.a.s.e. hai espresso una forte critica sulla loro localizzazione. A cose fatte, quali ti sembrano gli aspetti tangibili più critici derivanti da tale scelta emergenziale? da un punto di vista antropologico, quali ripercussioni avranno sulla società gli squilibri urbanistici prodotti da tale progetto?



RISPOSTA: Il progetto C.A.S.E. – a causa di una localizzazione corrotta e totalmente ignorante rispetto a criteri antropologici minimi di sostenibilità paesaggistica – si è risolto, per circa metà dei “new village”, in una serie di metastasi condominiali sorte in ambiti rurali. Questi frammenti di città postsismica, esplosi nei territori dei paesi, hanno deteriorato contemporaneamente sia la città sia la campagna, in un disordine urbanistico che, impoverendo la varietà degli habitat culturali, produce entropia a vari livelli.

La geografia della distanza fabbricata attraverso quest’arcipelago eterotopico tratteggia una sorta di atollo abitativo che, da soluzione a problemi causati dal terremoto della natura, si rivelerà sempre più come problema indotto dal bradisismo della politica, e che necessita, ove possibile, di ulteriori soluzioni o di un contenimento dei danni. Lontananza, separazione, disintegrazione, assenza di servizi sono problemi che non si sarebbero posti se si fosse seguito un criterio - praticabilissimo ma sconveniente per le lobbies urbanistico- imprenditorili aquilane - di prossimità alla cinta urbana.

Oggi il territorio comunale deve affrontare - proprio a causa del dove sono stati localizzati questi insediamenti - un processo di spaesamento che si manifesta doppiamente perturbante: per gli abitanti deportati lontano dai loro luoghi di origine, e per i borghi deturpati da edifici inappropriati. In molti casi già assistiamo agli esiti di una migrazione interna che ha prodotto un dualismo identitario tra “locali “ e “trasferiti”. Se i “locali” si sentono invasi da architetture che sono percepite come corrompenti, i “trasferiti” finiscono col percepire - a causa della distanza paesaggistica rispetto ai luoghi di provenienza - il tempo dell’attesa come un vacuo tempo sospeso, angosciosamente nostalgico, che spesso si cerca di lenire con un isterico nomadismo a corto raggio verso i resti della città (simbolo della quotidianità perduta). Inoltre la distanza tra questi micro insediamenti li rende ostici per la strutturazione di una nuova quotidianità collettivamente urbana, e tende a ridurre il territorio comunale a spazio di separazione in cui i legami comunitari e di socialità sono drasticamente inariditi (fattore che induce, tra l’altro, all’aumento di tensioni che si scaricano in ambito domestico).

In conclusione direi che al momento il morbo dello spaesamento ha attecchito a L’Aquila a causa di soluzioni malsane che hanno edificato distanza in forma di esilio e, conseguentemente, di attesa. Così si delinea, nel qui, il paradosso di un altrove, che - in quello che sarà il lunghissimo frattempo della ricostruzione - tende a secernere un eccesso di alienazione.

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