Come consulente
tecnico per l’accusa al processo alla Commissione Grandi Rischi non
posso esimermi da alcune considerazioni sulle scelte di comunicazione del rischio
praticate, subito dopo la sentenza di condanna degli esperti, rispetto alla
sequenza sismica nella Garfagnana del gennaio 2013. Questo a partire dall’idea
che l’approccio a certe questioni debba essere ancora migliorato, da un punto
di vista prima di tutto metodologico e quindi comunicativo. Se, parlando di
terremoti, l’analisi del rischio è una questione che riguarda prevalentemente
l’ambito sismologico e del calcolo delle probabilità, la comunicazione del
rischio dovrebbe prevedere competenze specifiche, di tipo semiotico e
culturale, in quanto i destinatari di queste informazioni sono le comunità, in
quanto va compreso come queste informazioni si diffondono e si propagano, quale
senso assumono nella cultura antropologica dei luoghi interessati.
testo pubblicato sul quitidiano "Il Centro" del 3 febbraio 2013
testo pubblicato sul quitidiano "Il Centro" del 3 febbraio 2013
Dopo la sentenza che condanna dei membri della Commissione
Grandi Rischi per aver rassicurato la popolazione aquilana, senza fondamento
scientifico e con esiti disastrosi, prima del terremoto che devastò la città il
6 aprile 2009, iniziano ad assumere ampio risalto mediatico dispacci delle
istituzioni preposte alla prevenzione del rischio che rivelano un tono
radicalmente mutato: allarmano circa la possibilità di terremoti. In verità
qualcosa era già cambiato dall’inizio de processo, ma ora se ne fa sfoggio mediatico,
se ne fa notizia da prima pagina. Un segnale di cambiamento positivo verso una
cultura della prevenzione? Fino a un certo punto.
Riflettendo su come
la gente percepisce la comunicazione del rischio, bisogna osservare che il dispaccio
della Protezione Civile in questione - “potrebbero avvenire altre scosse” -
manca del tutto di una stima percentuale circa la possibilità che si realizzi
un evento calamitoso: parla genericamente di possibilità di terremoto, ma così
facendo produce una comunicazione allarmista. Una comunicazione del rischio
generica, senza quantificatori, finisce con l’ingenerare allarmismo: se si comunica
solo “potrebbero avvenire altre scosse” si trasmette una vaghezza che tende ad
essere percepita dalla gente come eventualità, come “terremoto!”. Se il
“potrebbero” non si quantifica, non si fissa in un range di possibilità (che
riguarda prima di tutto una percentuale di occorrenza rispetto a una magnitudo
di riferimento, in un luogo, in un tempo, con un indice di incremento rispetto
ai tempi normali, con un indice di approssimazione) quel condizionale, privo di indice di probabilità, si trasforma,
nella prassi comunicativa, in un indicativo binario.
Va notato che l’autore
della nota che l’INGV ha trasmesso alla Protezione Civile ha dichiarato
che quell’informazione sul rischio, una volta comunicata, ha avuto un effetto dirompente sulla
popolazione. Questo effetto di amplificazione della percezione del rischio
avviene proprio dal momento in cui la previsione è vaga, manca di un indice di
probabilità che la fissa, impedendo interpretazioni. Rassicurare, così come
allarmare sono due atteggiamenti che la scienza della prevenzione dei terremoti
non si può permettere di praticare se vuole rimanere scienza: l’unica strada
possibile è quella di allertare, ossia chiarire quanto pericolo c’è in termini
di indici probabilità trasparenti e inequivocabili. Fare previsione
probabilistica dei terremoti, l’unica scientificamente fondata trattandosi di
fenomeni stocastici, vuol dire esplicitare indici percentuali di rischio, e non
aggiungere nulla a tali indici. Va anche sottolineato che è inutile e dannoso comunicare il rischio
senza comprendere come questo viene percepito dalle popolazioni e tradotto in
elementi di senso comune dalla cultura antropologica degli abitanti.
Detto questo, dato
che credo poco alle coincidenze, mi viene un dubbio rispetto alle circostanze
di questa comunicazione. Prima di andare avanti voglio considerare due punti:
1)
in Italia si verificano una grande quantità di
sequenze microsismiche (erroneamente denominate “sciami” già prima della loro
conclusione) e solo una minima parte di queste culminano in un evento
disastroso.
2)
la sentenza di appello per i condannati della
Commissione Grandi Rischi ci sarà tra circa un anno.
Se in questo periodo si seguiterà ad usare questo dispositivo che ribalta quella che fu una comunicazione grettamente rassicurazionista, in un bombardamento grettamente allarmistico che ingenera panico, psicosi collettiva, si arriverà indirettamente e, soprattutto, scorrettamente, a minare il valore della sentenza di primo grado. Questo può essere un modo per diluire, per sofisticare l’errore mortale di aver scambiato per una pecora un lupo che ringhiava da mesi, sbilanciandolo con l’algebricamente opposto errore del cominciare a gridare istericamente e ossessivamente “al lupo al lupo!” alla prima occasione.
In tal senso
sospetto che il binarismo “terremoto/non-terremoto”, che, ripeto, è pervertimento
di una comunicazione scientifica che per essere concretamente probabilistica si
dovrebbe limitare a fornire trasparentemente indici percentuali e non fumose profezie
sibilline di terremoto (o di non-terremoto, come avvenne all’Aquila), sottenda
un binarismo ideologico in cui si cerca, diluendo un errore nell’errore
opposto, di ribaltare una sentenza di colpevolezza. È per questo che penso che
in questa strategia, intenzionale o meno che sia, è di fatto insita una
biopolitica del panico che si risolve in un atto di terrorismo tecno-mediatico,
di sabotaggio nei confronti della sentenza. Questa è solo un’ipotesi, ma non
prenderla in considerazione sarebbe una scorciatoia ideologica. L’unica
certezza è che la scienza è trasparente, la magia è sibillina.
Proprio mentre
finisco di scrivere apprendo dalla stampa che Franco Gabrielli, il capo della
Protezione Civile, sta usando il panico della Garfagnana per gettare discredito
sulla sentenza dell’Aquila.
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