In questi giorni si parla del ruolo dell'Università nella città. Inserisco nel blog il testo di un intervento che ho tenuto due volte: il 23 marzo 2011all'assemblea cittadina di piazza Duomo (nell'incontro-dibattito "L'Università della città: informazioni, problemi, idee per una città universitaria") e all'UDU summer fest del 20 luglio 2011. Forse è il caso di sottolineare che entrambi gli incontri hanno visto una bassa, direi bassissima, partecipazione della cittadinanza, e sono stati totalmente disertati dalle istituzioni. Si tratta di contenuti che ho espresso varie volte anche in assemblee e situazioni accademiche e in special modo, da subito dopo il terremoto, nell'ambito della Commissione di Ateneo per la Residenzialità Studentesca.
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L'Aquila non è mai stata una città universitaria, ha semplicemente
fondato per una ventina d'anni la sua economia sull'Università. Per questo dire
"L'Aquila città universitaria" significa pretendere di mimetizzare
una relazione essenzialmente predatoria nei panni di una relazione
simbiotica.
DAL TELEFONO, AL LIBRO, ALLA CAZZUOLA
Su un punto occorre essere chiari, perché non serve continuare ad
ingannarsi: oggi L’Aquila del dopo-terremoto non ha più bisogno dell’Università
per foraggiare l’economia della città. L’Università fu concretamente utile per
le casse aquilane a partire dalla fine degli anni ’80, con la lenta ma
inesorabile crisi del comparto industriale, che localmente era prima di tutto
elettronica. Una recessione culminata con il tramonto dell’Italtel, lo
stabilimento che era per la città quello che per decenni è stata la Fiat per
Torino: lavoro di massa. Nonostante questo cataclisma L’Aquila continuò a
garantire un buon tenore di vita ai suoi abitanti in quanto – oltre al blasone
dell’amministrazione politica di un vasto comune, di una vasta provincia e
della Regione – l’Università si rivelò come un’alternativa in grado di
puntellare la catastrofe lavorativa scatenata dalla crisi del comparto industriale.
Così, mentre diminuivano i posti di lavoro in fabbrica aumentavano gli scritti
ai corsi di laurea, nascevano nuove Facoltà; e, a cavallo del millennio,
l’Ateneo aquilano rilevò dalla declinante industria il volano economico della
città. Volendo schematizzare si può dire che in pochi anni – e senza che la
popolazione ne acquisisse piena consapevolezza – si verificò una vera e propria
rivoluzione nel modo di produzione della città: si passò dalle linee di
produzione dei circuiti elettronici per la telefonia alla produzione di
ricerca, conoscenza, formazione; e quei 27000 iscritti a fronte di una città di
60000 abitanti effettivi hanno garantito una cospicua linfa economica, fatta di
affitti, spese di vitto, divertimenti, un flusso continuo capace di generare un
indotto enorme per una piccola città, che può essere tradotto in un termine:
benessere.
Dopo questo silenzioso
mutamento epocale dal “telefono” al “libro”, oggi si pongono con enorme forza –
come conseguenza del sisma che ha danneggiato enormemente la città – le
condizioni per un passaggio dal “libro” alla “cazzuola”. Infatti, il terremoto
del 6 aprile 2009 mentre ha privato l’Università delle sue infrastrutture
produttive (le sedi delle Facoltà, gli appartamenti che hanno mantenuto
l’agiatezza della media borghesia aquilana, le sedi della governance), ha
aperto un oceano di possibilità al comparto dell’edilizia. Ed è meglio
precisare che non si tratta di un’opinione, un punto di vista, ma di un dato di
fatto. A due anni dall’evento, nonostante un regime di forti pressioni
commissariali, le imprese aquilane sono riuscite ad accaparrarsi oltre l’80%
dell’affare ricostruzione. Questo significa che, per una trentina d’anni, la
città camperà di mattoni, di gru, di ponteggi, cantieri. Questo significa che
il terremoto ha fatto tanto danno all’Università (privandola del patrimonio
edilizio su cui poggiava tale sistema economico) quanto ha portato beneficio
all’edilizia (generando una necessità d’intervento e una possibilità di
acquisizione di fondi).
Nella città da ricostruire l’Università
non è più una necessità, le risorse economiche per sostenere la città verranno
dai fondi per la ricostruzione. Così, ora che a L’Aquila l’università ha perso
la sua funzione originaria - latente ma primaria - di soddisfare delle
necessità economiche, è il caso di ripensare la questo rapporto, per
comprendere finalmente l’Università in un mutamento da necessità economica
latente a possibilità culturale manifesta. Ciò potrà avvenire solo a condizione
che la città, le istituzioni e i suoi abitanti, sviluppino fiducia intorno alla
desiderabilità di questa istituzione, nella garanzia che essa può fornire in
una rifondazione della città non basata sulla quantità di consumo di suolo, di
camion, di mattoni, ma sulla qualità della vita presente nelle
città-universitarie. Questo significa passare da un rapporto di predazione
(Università come risorsa da cui prendere unidirezionalmente senza investire) a
uno di simbiosi (commensalismo tra università e città nel produrre qualità
della vita); questo significa passare da “città con università” a “città
universitaria”.
IL RISCHIO DELL’INDUSTRIA DELLA RICOSTRUZIONE
Consentire alla
ricostruzione di assumere all’Aquila la funzione di modo di produzione
economica rimanda a enormi pericoli al momento non visibili che vanno dal
consumo di suolo alla decadenza socio-economica nel lungo periodo. Il rischio
insito in un’autopoiesi della ricostruzione riguarda il rovesciamento da
“cantiere-per-ricostruire-la-città” a “città-per-mantenere-un-cantiere”, in un
organismo insediativo ipertrofico che fagocita il paesaggio, esponendo il
sistema urbano al il rischio del crollo. Questo rischio è insito
nell’eventualità che alla fine della ricostruzione non corrisponda l’uscita
definitiva da una fase di passaggio emergenziale, ma l’entrata in un’emergenza
occupazionale ed economica che sarà una nuova catastrofe sociale. Il rischio
del miraggio della ricostruzione fine a se stessa è quello di scambiare un
pericolo in una possibilità, e di consegnare la città in mano a un sistema di
speculazione che si deve per forza di cose reggere su un processo di
cannibalizzazione urbanistica del luogo.
Tuttavia deve essere chiaro che una ricostruzione non è mai un mero
processo di accumulo materiale di artefatti, ma necessita di una cognizione
culturale che sia in grado di delineare un senso del luogo, una vocazione,
un’idea di città fondata sulla definizione di un sistema di valori, di
caratteristiche, che definiscano l’esserci-al-mondo locale facendo emergere una
forma peculiare di desiderabilità del sociale.
Ridurre la ricostruzione alla ricostruzione edile, e farne la ragion
d’essere della città significa condannare il futuro della stessa ad un’assenza
di visione a lungo termine in grado di definire una vocazione del luogo fondata
sulla ricerca di qualità culturale urbana. Perciò oggi L’Aquila del
dopo-terremoto può adagiarsi sull’economia della ricostruzione, ma così facendo
condannerà L’Aquila della dopo-ricostruzione al declino per l’assenza di un
vocazione del luogo, che rischierà di scoprirsi degenerato da città storica a
discarica edile.
CURARE
L’UNIVERSITA’ COME VALORE
Curare
l’Università come valore, ossia come istituzione desiderabile in quanto garante
di una connotazione del luogo capace di tutelarne la qualità del quotidiano, il
rango, il senso della socialità, vuol dire mettere la questione della città
universitaria come obiettivo rilevante e prioritario per la ricostruzione del
luogo.
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