Le accese risposte a un mio intervento, da parte di un responsabile del PD locale (Giulio Petrilli) e di un dirigente dell’INGV (Warner Marzocchi), meritano una replica; questo per dovere di chiarimento rispetto ad alcuni fraintendimenti e scorrettezze argomentative. Questo precisando che, se l’elaborazione di dati sui terremoti è ovviamene compito di geologi e sismologi, la discussione sull’uso sociale degli stessi è questione prettamente socio-antropologica, specie per quanto riguarda il rischio che tali informazioni vadano a costituire la materia prima per la costruzione di stereotipi culturali.
Se Petrilli avesse letto con attenzione avrebbe costatato che ho scritto che quello che ritengo inaccettabile è attribuire i danni del terremoto esclusivamente a fattori di cattiva costruzione. “Esclusivamente” vuol dire che la cattiva costruzione è un fattore, ma non il solo. Questo è il punto centrale, e non è questione di mettere “la testa sotto la sabbia” (l’uso di quest’espressione mi sorprende, in quanto mi sembra più appropriata per descrivere il comportamento che molti politici locali hanno adottato nei confronti del Governo per più di un anno). Semmai starei attento a non gettarci del fango addosso con le nostre mani, importando distrattamente visioni pseudo-scientifiche che rafforzano stereotipi che ci aggrediscono già da mesi. La carenza nella costruzione degli edifici è un fattore, ma lo è insieme all’intensità dello scuotimento: attribuire tutto alla qualità scadente delle costruzioni non è corretto.
Per meglio comprendere questo punto occorre a questo richiamare con forza un principio cardine della disastrologia, che ci dice che il danno dipende, appunto, dalla combinazione tra l’intensità fisica dell’evento naturale e gli elementi di vulnerabilità sociale (quali ad esempio la qualità delle costruzioni). Questo principio dimostra che non si può ridurre l’esito di un cataclisma esclusivamente a fattori di vulnerabilità, ma che – viceversa - questi sono al contempo una concausa necessaria che determina il danno finale. Azzerare la vulnerabilità di un luogo può essere un obiettivo asintotico per azzerare il rischio; ma a evento avvenuto, rappresentare tale vulnerabilità in eccesso può essere un modo per sminuire la misurazione della forza fisica dell’evento e scaricare eventuali responsabilità. In uno scenario in cui un’istituzione scientifica produsse rassicurazioni che si rivelarono di fatto catastrofiche, sarei molto prudente su questo punto. Forse qualcuno ha bisogno dello stereotipo del terremotino per scaricare una serie di responsabilità. In tal modo non si vuole assolutamente omettere il problema dei crolli, ma si vuole quantitativamente ricondurre a una visione più realistica delle peculiarità del sisma aquilano: in luogo di crolli sporadici la dovremmo finire di raccontare la città come se fosse tutta in macerie, e iniziare a comprendere che, purtroppo, la città è perlopiù pericolante; ma quasi sempre ci ha salvato da un terremoto tremendo, che, come ho scritto subito dopo il sisma, ha causato oltre 300 morti ma ha anche risparmiato circa 100000 vivi.
La Casa dello Studente è uno scandalo, ma L’Aquila intera non è la Casa dello Studente. Se vogliamo evitare di subire l’attribuzione stereotipi che fanno comodo a chi si deve pulire la coscienza perché ci ha rassicurato di stare al letto, senza nel contempo rimuovere elementi problematici dalla rappresentazione sociale del sisma, dovremmo essere in grado di raccontarci accogliendo entrambe questi elementi – l’intensità e la vulnerabilità – entro la narrazione collettiva dell’evento. L’Aquila ha subito uno scuotimento temendo ma ha riportato crolli sporadici. In vari convegni è stato comunicato dagli addetti ai lavori che a Pettino si è avuta un’accelerazione media di 0,68G con un fattore di amplificazione pari a 2, e questo come forza di scuotimento effettiva (superiore a 1G) colloca il terremoto come il peggiore evento italiano degli ultimi 95 anni. Tale visione è molto lontana dallo stereotipo della città di catapecchie distrutta da un terremotino, rappresentazione dalla quale i cittadini devono difendersi; rappresentazione già circolante nell’immaginario nazionale e che può venire rafforzata da modelli pseudo-scientifici quale può essere una comparazione omissiva della variabile della distanza dall’epicentro.
Rispetto al prof. Marzocchi, ribadisco che ho basato la mia critica su due punti, precisi, e che enuncio di nuovo per chiarezza, poiché se egli vuole controbattere alla mia tesi, ha il dovere deontologico di attenersi agli enunciati che ho espresso, non manipolarne l’ambito referenziale con modesti espedienti retorici:
1) è inappropriato comparare due terremoti omettendo il parametro della distanza dei luoghi colpiti dall’epicentro del sisma
2) la scala Mercalli non misura l’intensità del movimento ma i danni sulle costruzioni
Marzocchi asserisce che si tratta di analisi “sbagliate”, lo fa entro una cornice comunicativa assai veemente, che pertanto indurrebbe il lettore a pensare che io abbia portato delle affermazioni totalmente infondate. Stando a questa posizione di severo aut-aut consegue che Marzocchi riterrebbe attendibili affermazioni come:
1) è appropriato comparare due terremoti omettendo il parametro della distanza dei luoghi colpiti dall’epicentro del sisma
2) la scala Mercalli misura l’intensità del movimento
Certo, di fatto egli sul primo punto mi dà poi celatamente ragione dicendo che “la distanza epicentrale può essere importante”. Sarebbe bello capire quanto egli pensa che possa essere importante, visto che qualsiasi modello si costruisce in base alla definizione di variabili e alla definizione della rilevanza delle stesse. Così Marzocchi, mentre si scandalizza platealmente, riconosce che l’analisi del geologo gallese omette una variabile, ma non chiarisce quanto rilevante questa sia. Sospetto che la rilevanza della variabile “distanza” nella valutazione comparativa tra due sismi sia prioritaria rispetto al rischio di deformare il paragone, dando un’immagine ridotta dell’intensità del sisma aquilano. Questa tendenza alla riduzione dell’intensità del sisma aquilano è stata spesso praticata - a partire dalla magnitudo – ed è confermata dallo stesso Marzocchi, che dichiara che il sisma di Haiti sarebbe stato 30 volte più “grande” di quello dell’Aquila, quando invece la differenza è di 11. L’abitudine a limare certi dati sempre nella stessa direzione è di per sé un dato; un dato inquietante da un punto di vista socio-antropologico. Pare che qualche scienziato si alleni all’uso della lima, forse in prospettiva di prossime applicazioni pratiche di tale utensile.
Riguardo alla seconda questione, quella sulla scala Mercalli, Marzocchi mi risponde scavalcando il referente della mia affermazione: egli sostiene che la mia critica «è sbagliata» solo controbattendo che tale scala «è stata calibrata per “classificare” il danno agli edifici» ma viene usata anche «per produrre in tempo reale scenari di danni probabilistici». La questione dell’intensità di movimento non è nemmeno nominata. Probabilmente non ho inteso, ma non mi sembra un buon esempio di quella “qualità dell’informazione scientifica” che Marzocchi raccomanda.
Ho però l’impressione che il fastidio e la preoccupazione del dirigente derivi non tanto dal valore delle mie analisi, ma dal fatto che il mio discorso seguirebbe «un anno e più di critiche piovute sul mondo scientifico». Mi pare che il vero punto dolente sia questo. Prima di tutto vorrei far notare che le critiche in questione non hanno come oggetto genericamente il “mondo scientifico”, che mi auguro il dirigente non voglia sussumere per intero, ma perlopiù l’ambito specifico della qualità delle analisi prodotte dalla Commissione Grandi Rischi, di cui l’INGV fa parte. In proposito sarei poi prudente nel lamentarmi riguardo a presunte “supponenze” e “offese”. Ciò in quanto si ha l’impressione assai diffusa che alcune supponenti stupidaggini ammantate di (pseudo)scientificità concausarono, a partire da una serie di rassicurazioni disastrose”, la concretissima offesa di oltre trecento morti. Comprendere la formula di disastrologia che ho ricordato sopra può aiutare a capire che, posto che i danni da catastrofe dipendono anche e necessariamente dalla vulnerabilità sociale, questo fattore può essere eventualmente aumentato da scienziati che, in certe circostanze, producono messaggi erroneamente rassicuranti. O Marzocchi ha colto l’occasione per dare ad intendere che la colpa fu solo dei giornalisti che diedero male il comunicato?
Qui non c’è lo spazio per proseguire, comunque – dato che già mi sono occupato della questione delle “rassicurazioni disastrose” – mi riservo la facoltà di tornare in altre sedi in dettaglio sul tema; proprio riprendendo alcuni passaggi del testo di Marzocchi che ora non ho potuto discutere, ma che pongono seri dubbi sui rischi di asservimento di una (pseudo)scienza a forme di controllo politico-ideologico.
L’Aquila 14-9-2010
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