Raccolgo qui dei testi che ho scritto su alcuni aspetti della gestione del processo di (ri)costruzione della città dell'Aquila in seguito al terremoto del 6 aprile 2009.
Gli scritti, a partire da una visione critico-problematica basata su prospettiva di analisi antropologico-culturale, puntano a mettere in rilievo i momenti di ingenuità, disfunzionalità, corruzione, propaganda, speculazione, profitto che minacciano il futuro della città.

L'Aquila, 10 marzo 2010
Antonello Ciccozzi

giovedì 12 aprile 2012

RASSICURAZIONISMO: ANTROPOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA NEL TERREMOTO DELL’AQUILA (estratto)



Sergio Nannicola: "Il terremoto dell'Aquila 2009", Maestri di Brera per l'Unità d'Italia - Bandiere

(mostra allestita presso il Palazzo Berlaymont sede della Commissione Europea a Bruxelles, 1-20 dicembre 2011).

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Riporto gli ultimi tre capitoli della consulenza tecnica che ho redatto, in qualità di antropologo culturale, per la Procura della Repubblica nell'ambito del processo alla Commissione Nazionale per la Prevenzione e la Previsione dei Grandi Rischi, i cui membri sono accusati di omicidio colposo plurimo e lesioni (l
a Commissione è accusata di aver rassicurato la popolazione aquilana circa la natura di una sequenza sismica in atto da mesi nel sottosuolo della città, che sfociò nel terremoto distruttivo del 6 aprile 2009). La relazione (respinta per un cavillo procedurale il 25 gennaio 2012) è stata discussa e depositata in udienza l'11 aprile 2012. Il testo (che, essendo composto da 119 pagine sarebbe inopportuno riportare per intero) riprende il tema che ho già trattato in questo post: http://lacittanascosta.blogspot.it/2010/06/il-valore-dei-termini-mancato-allarme-o.html.


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CONOSCENZE POPOLARI LOCALI: LA CULTURA DEL TERREMOTO

[…] La “cultura del terremoto” segue la storia della città come un’ombra, come un sapere sotterraneo, come una reminiscenza oscena, di cui nei momenti normali ci si deve quasi vergognare, nella preoccupazione di intrattenersi con un’inopportuna paranoia: si tratta di una reliquia particolare che non può essere esposta sempre, perché il bisogno di normalità determina l’istinto umano di rimozione delle catastrofi, dove il terremoto nella sua immensità svela brutalmente «lo scandalo del male»[1], sicché «non ci sono catastrofi che si dimenticano più velocemente del terremoto, quando la ricostruzione si compie»[2]. Perciò ci si trova di fronte a un insolito paradosso dell’ecologia umana che si manifesta in modo peculiare, quasi unico all’Aquila, in cui il terrore di un evento altamente improbabile, ma che ha periodicamente devastato la città, genera la tensione tra due strategie adattive inconciliabili: sapere quando è il momento di avere paura, perché senza la comprensione del terrore si muore, ma dimenticare quella paura nella vita di tutti i giorni, perché non si può vivere sempre nel terrore, a meno di non voler sopportare un’angoscia che annichilirebbe l’esistenza. Tutto ciò ha una spiegazione semplice nella sua assurdità: L’Aquila è una piccola città, piena di bellezze e che offre a chi la abita la possibilità di una vita serena e confortevole, ma ogni tanto impazzisce facendo scempio dei suoi abitanti, che all’improvviso muoiono straziati da ciò che – nella cultura occidentale votata alla stanzialità – è normalmente il simbolo cardinale della stabilità, della sicurezza, il centro del mondo, il luogo dell’anima: la casa.
La città è convissuta dalla sua fondazione con questa rara ma periodica e totale follia, che in 700 anni di storia ha decimato la sua popolazione per diverse volte, causando complessivamente oltre 7000 morti. In proposito va rilevato che in passato abbiamo il primo segno di attuazione di misure precauzionali in seguito al perdurare di una sequenza sismica, e in memoria della prima ecatombe portata dal sisma del 1348 che uccise quasi mille persone, cioè il 10% della popolazione dell’epoca. Infatti, dal cronista medievale Francesco di Angeluccio di Bazzano, si è a conoscenza che nel 1462, dopo una sequenza sismica iniziata mesi prima che già aveva prodotto un evento di picco, benché ci sia stato un secondo sisma violentissimo, «la progressione delle scosse fu tale da consentire un massiccio sfollamento e l’adozione di misure di prudenza che limitarono le vittime ad un numero di gran lunga inferiore a quello che si registrerà nel terremoto del 1703». In occasione del sisma del 1462 il cardinale Agnifili, allarmato dall’incedere delle scosse, ordinò la chiusura delle chiese e fece erigere gli altari nelle piazze, come pure «furono erette baracche in legno nella piazza del Mercato, nel campo di Fossa, e nei numerosi spazi liberi entro le mura»[3]. Se in questo caso «il popolo ebbe “gran paura per lo peggio che n’avesse a sequire”», per cui «nessuna persona, in ricordo dei terremoti passati, rimase in casa»[4], le oltre 6000 vittime provocate dal terremoto del 1703 non ebbero modo di salvarsi anche per una sottovalutazione culturale del rischio: infatti pur essendo iniziate le scosse quattro mesi prima, in quel caso non vi furono disposizioni precauzionali da parte delle autorità, né iniziative simili da parte della popolazione.
In quella circostanza la città pagò l’aver dimenticato che i suoi abitanti si salvarono attraverso la precauzione di uscire dalle case dopo le scosse di avvertimento, ma quell’ecatombe lasciò il segno producendo un subconscio collettivo capace di leggere la pericolosità della città: un codice che non trovò la forza dell’evidenza, attraverso delle concessioni chiare all’iconicità, ma restò dormiente, insieme alla terra che dopo essersi scatenata subito si placa, nascosto in simboli che vanno svelati con l’interpretazione culturale. Infatti dopo il terremoto del 1703 la città attiva una strategia del ricordo, secernendo una semiosi di avvertimento che resta celata negli interstizi del percorso di rimozione di cui ha bisogno la rinascita: la muta dei colori simbolo della città, che dal rosso e il bianco si invertirono nel verde della speranza e nel nero del lutto, l’attribuzione popolare della denominazione di “chiesa delle Anime Sante” data in ricordo delle vittime, alla chiesa di Santa Maria del Suffragio, edificata a fianco del Duomo dopo il sisma, la riduzione della durata dei festeggiamenti annuali del carnevale (il terremoto del 1703 avvenne proprio nel periodo carnevalizio). Un altro segno dell’attenzione del folklore aquilano nei confronti del terremoto è attestato dalla devozione particolare verso sant’Emidio, alla cui intercessione fu attribuita la salvezza della sua città, Ascoli Piceno, vicina all’Aquila, proprio durante il sisma del 1703; da quest’episodio iniziò la venerazione del martire come protettore dai terremoti, e L’Aquila, proclamò suo comprotettore, dedicandogli una statua dove egli è ritratto con la città in mano[5].
Più in generale, il tributo silenzioso delineato dall’insieme degli elementi che compongono questa struttura di memoria civica, tanto singolare quanto drammatica, ha configurato le basi di un subconscio collettivo che si addensa intorno al principio folklorico – quindi tanto vago formalmente quanto sostanzialmente consistente – che da secoli è tramandato oralmente, secondo il quale dopo una forte scossa è buona norma restate per qualche ora fuori dalle abitazioni. Principio che, a partire dai più anziani, praticamente tutti in città conoscevano prima del 6 aprile 2009, e che in moltissimi avevano già applicato durante la sequenza sismica.
Infatti, durante i mesi di scosse, poi degenerati nel terremoto disastroso, questa reazione collettiva è stata innescata proprio dal boato del 30 marzo, che, rispetto alle altre scosse avvertite dalla popolazione – d’intensità tra i 2 e i 3 gradi della scala Richter – presentava un’intensità del quarto grado (il che, essendo tale scala logaritmica, vuol dire che ebbe a sprigionare un’energia circa trenta volte maggiore rispetto agli eventi che lo avevano preceduto). Lo stimolo dato da quel severo ruggito della terra, ben diverso dai lievi tremolii delle scosse precedenti, attraverso il filtro dell’interpretazione precauzionale tradizionalmente sedimentata all’Aquila, attiva in gran parte della popolazione la reazione precauzionale di uscire dalle case e restare fuori per un po’. Con la terra si sveglia il subconscio collettivo. Così, com’era successo nel passato remoto e recente, dopo boati di quell’intensità, la gente aquilana aspettò delle ore prima di rientrare, nelle piazze, a guardare da fuori case e palazzi, nel terrore che stesse arrivando il terremoto, in un pomeriggio sospeso nel vuoto di paure e di fantasmi, proiettati improvvisamente dentro una dimensione parallela rispetto all’ordinario scorrere del tempo, così irreale da non poter essere facilmente descritta.
Poi, il giorno dopo, gli esperti della CGR vennero a spiegare di persona che in questo caso non ci sarebbe stato nessun terremoto catastrofico, perché scosse di quell’intensità erano da attendersi, erano normali, erano un segno positivo che questa volta il terremoto stava “scaricando”, agganciando la plausibilità di tale diagnosi alla fiducia nella scienza, oltre che all’umana reazione di rimozione della paura. E le due scosse che precedettero il disastro di qualche ora emisero lo stesso boato di quella del 30 marzo. L’Aquila è una città che uccide, e il subconscio collettivo che è fermentato sulle macerie dei secoli passati prova a mantenere il filo della memoria in un letargo che aiuta a tenere a distanza quell’orrore dall’impegno di distensione che richiede la vita quotidiana; lo fa attraverso un sussurro popolare che percorre la storia del luogo, e che quella notte si è trovato in contraddizione con delle rassicurazioni disastrose promanate dall’autorità della scienza di Stato.
Prima di allora in questi casi, ciò che appropriatamente si può definire come l’istinto umano – il gesto culturale elementare della ricerca di significato – sapeva reagire al fulmineo emergere dell’inatteso attraverso la ripresa del filo della memoria popolare, trovando un’indicazione capace di rispondere all’angosciante domanda sul “che fare” dal momento in cui i vecchi compivano il gesto primordiale d’inculturazione che nutre la tradizione: ricordavano. Ricordavano, e ripetevano ai figli e ai nipoti quello che si erano sentiti prescrivere dai loro vecchi, quando erano bambini: aspettare prima di rientrare nelle abitazioni, restare fuori perché anticamente successe che quei segni precedettero una violenza apocalittica, l’orrore totale di migliaia di corpi straziati dalle pietre. Una ricetta arcaica, per la rara ricorrenza della festa orrenda, in cui, come in un rito d’inversione, come in un carnevale assurdo, che ogni tanto il terremoto mette in scena all’Aquila, mettendo sottosopra un principio base dell’esistenza umana: l’immobilità della terra. Una ricetta che, come tutti gli usi popolari, si mantiene nella labilità dei codici orali, incerta, vera, indispensabile, vitale. Invece il 6 aprile 2009 quel codice non passò nel filtro dei repertori culturali di molti aquilani, poiché fu reso inascoltabile dal rumore di assurde divinazioni veicolate entro il potere seduttivo delle sembianze scientifiche, e amplificate da un tamtam di grande diffusione mediatica che da una settimana aveva invaso l’etere locale. Questo conflitto – l’attrito generato dal dislivello fra tradizione e modernità, tra inculturazione e acculturazione – è un universale culturale che accompagna l’umanità dalla nascita delle culture complesse, ma forse raramente tale tensione costitutiva dell’ultimo periodo evolutivo della nostra specie ha assunto dei connotati così surreali.




PERCEZIONE CULTURALE DEL RISCHIO E VULNERABILITA’ SOCIALE

Per definire la distribuzione delle responsabilità delle conseguenze di un disastro il primo punto è comprendere pienamente cos’è un disastro nella sua essenza. Fare ciò significa prima di tutto andare oltre gli stereotipi pseudoscientifici insiti nella rappresentazione degli eventi calamitosi in base a semplificazioni tecnocentriche orientate alla descrizione delle cause del danno solo e unicamente in termini di agenti fisici. Questo superamento è necessario per pervenire a una visione olistica degli eventi catastrofici, in grado mettere in relazione il danno alla combinazione di fattori fisici, sociali e culturali, e che può essere espressa in questa formula:
D=IxV
Dove:
D= disastro inteso come danno derivante dalla «disgregazione sociale che segue l’impatto di un agente distruttivo su una comunità umana»;
I= agente d’impatto fisico (ad esempio la magnitudo di un sisma);
V=variabili antropiche che esprimono il livello di vulnerabilità della comunità[6].
Se questa combinatoria chiarisce che il livello di vulnerabilità di un luogo può attutire o amplificare gli effetti di una calamità naturale o artificiale, va specificato che la variabile (V) – la vulnerabilità di un luogo – riguarda un insieme di aspetti sociali che rimandano ad ambiti tecnici, politici, economici e culturali, intesi come fattori che tendono ad amplificare o a diminuire il rischio, a cui va aggiunto il fattore antropologico della percezione del rischio, e in tal senso si ha:
V=Ra-Rm±Rp
Dove:
V=variabili antropiche che esprimono il livello di vulnerabilità della comunità;
Ra=funzione di amplificazione del rischio;
Rm=funzione mitigatrice del rischio;
Rp=funzione di percezione del rischio[7].
Questa formula - evidenziando la combinazione di elementi naturali, sociali e culturali che concorrono a produrre una situazione disastrosa - chiarisce un punto fondamentale, che nel caso qui in esame può essere inteso come il fulcro in base a cui stabilire le responsabilità della CGR: la percezione culturale del rischio può incrementare o diminuire la vulnerabilità sociale di un luogo. Questo vuol dire che, nella definizione delle responsabilità dei fattori umani che fanno di un evento fisico un disastro, una rassicurazione immotivata ha lo stesso peso di un edificio costruito a spregio delle normative di sicurezza, dove tale peso risulta come un fattore di aumento dell’esposizione al pericolo, in quanto amplifica gli esiti disastrosi di un evento calamitoso.
Le formule appena citate ci aiutano portare fuori dall’opinabilità la considerazione che all’Aquila la gente è morta per la combinazione di tre concause:
- perché un terremoto di magnitudo momento 6.3 ha colpito la città con precisione chirurgica (con l’epicentro sulla città e l’ipocentro a soli 8 km di profondità), sottoponendola a uno scuotimento molto violento;
- perché alcune case non erano sufficientemente resistenti per reggere alle sollecitazioni ricevute;
- perché molte persone hanno creduto alle infondate rassicurazioni date dalla CGR sulla presunta natura innocua della sequenza sismica in atto in quei giorni; rassicurazioni che hanno diminuito la percezione del rischio incrementando così la vulnerabilità del luogo.
È proprio questa capacità di aver incrementato la vulnerabilità del luogo a fare della diagnosi formulata dalla CGR una rassicurazione disastrosa, ossia un agente distruttivo[8].




UNA RASSICURAZIONE DISASTROSA NON E’ UN MANCATO ALLARME[9]

Da tempo la recriminazione degli esiti sociali negativi portati dalla diagnosi della CGR tende ad essere rappresentata attraverso l’espressione ‘mancato allarme’. Di mancato allarme si è parlato e si seguita a parlare in ambito cittadino, in ambito giuridico e mediatico[10]. Constatato ciò è indispensabile mettere in evidenza l’inappropriatezza e la netta fuorvianza dell’uso di questa formula in riferimento a quanto è successo all’Aquila nel periodo di incubazione della catastrofe, ovvero in merito alla segnalazione immotivata di normalità comunicata dalla CGR. Infatti la definizione di “mancato allarme” è nel nostro caso errata in quanto produce un significato fuorviante rispetto al referente. ‘Mancato allarme’ significa non (pre)dire che ci sarà un evento nefasto, e questo è totalmente diverso dal (pre)dire che non ci sarà un evento nefasto. Tutto si gioca sintatticamente a partire dalla posizione della negazione: nel primo caso è in gioco un’assenza di capacità (o di volontà), nel secondo caso è in gioco la presenza di un errore (o di un inganno).
Il concetto di ‘mancato allarme’ rimanda al termine ‘allarmismo’; e l’idea che la mancanza della CGR possa ricadere nel primo concetto suggerisce subito implicitamente una pretesa, e quindi un’accusa eccessiva, perché non si può esigere che una commissione scientifica si metta a lanciare allarmi più o meno immotivati in ogni occasione di possibile pericolo, rischiando di fomentare psicosi collettive. Il punto è che non si tratta affatto di questo. Va considerato in merito con attenzione che nel linguaggio corrente non disponiamo di un contrario puro per il termine ‘allarmismo’, lemma composto dal sostantivo ‘allarme’ (che significa “segnalazione di emergenza”) e dal suffisso “-ismo” (che significa in questo caso “dottrinarietà”, fissazione immotivata spesso legata ad atteggiamenti collettivi), che insieme delineano un significato di “tendenza a preoccuparsi e ad ingenerare timore verso gli altri in assenza di validi motivi”. E’ proprio il suffisso ‘-ismo’ a conferire al termine la connotazione dell’immotivatezza alla segnalazione di emergenza. Viceversa una parola che significa “segnalazione immotivata di normalità” non esiste: termini come ‘tranquillizzazione’ o ‘rassicurazione’ non comportano il connotato dell’immotivatezza.
Il termine ‘rassicurazionismo’ risulta in tal senso l’unico appropriato, ma ad oggi non è in uso, e senza un po’ d’abitudine i termini, specie se compositi, tendono ad avere un senso nebuloso. Le difficoltà nella comprensione di quanto è avvenuto all’Aquila, del ruolo della CGR nella fase di incubazione della catastrofe, l’impenetrabilità, l’ermeticità di questa situazione, si rivela proprio ipso-facto a partire dal suo essere indefinibile attraverso una semplice attribuzione terminologica di senso. Mancando un termine si cade da subito nell’equivoco attraverso l’uso di espressioni inappropriate, quali sono in questo caso quelle di ‘allarmismo’ o ‘mancato allarme’. Perciò va compreso che l’inesistenza dei termini o si supera con un termine nuovo, o si evita con la costruzione di termini composti, o si va incontro a uno spiacevole inconveniente: il non riuscire a definire un fenomeno aumenta il rischio di subirne le conseguenze, mentre suggellare gli enunciati che significano un fenomeno in un’unica parola rende lo stesso più recepibile. ‘Rassicurazionismo’ è l’unica parola che può descrivere compiutamente l’inedita performance comunicativa attuata per mesi dalle istituzioni della Protezione Civile e dell’INGV e che ha avuto come apice persuasivo la riunione della CGR, dove, in un cerimoniale di ostentazione di autorità, si è affermata la rassicurazione disastrosa secondo la quale si era di fronte a uno ‘sciame sismico’ che esauriva l’evento dilazionandolo bonariamente in un graduale “scarico positivo di energia”.
Un mancato allarme, per portare qualche esempio, è un incrocio senza semaforo (assenza d’informazione in presenza di rischio), una rassicurazione disastrosa è un semaforo che segna verde quando invece dovrebbe segnare rosso (informazione sbagliata in presenza di rischio); viceversa una rassicurazione fondata è un semaforo che segna verde appropriatamente (informazione esatta in assenza di rischio); mentre un procurato allarme è un semaforo che segna rosso senza che vi sia l’incrocio (informazione sbagliata in assenza di rischio). Similmente, un mancato allarme è l’assenza di un cartello che avverte “acqua non potabile” su una fontana avvelenata; una rassicurazione disastrosa è un cartello che recita “acqua potabile” su una fontana avvelenata; una rassicurazione fondata è una scritta “acqua potabile” su una fontana buona; un procurato allarme è una dicitura di “acqua non potabile” su una fontana buona. In sintesi: si ha una rassicurazione disastrosa nel momento in cui su una situazione pericolosa viene posto un segnale rassicurante.
Il punto è che semafori, cartelli o altri segni che siano, per chi riconosce quei codici la definizione di non pericolosità diventa prescrizione per l’azione. Tra “mancato allarme” e “rassicurazione disastrosa” va ancora sottolineata la differenza cardinale: l’assenza d’informazione va distinta dall’informazione errata. Una rassicurazione disastrosa implica un mancato allarme, ma lo sopravanza. Perciò chiariamo questo punto: il mancato allarme ovviamente c’è stato (in quanto non c’è stato un segnale di pericolo), ma c’è stato di peggio, c’è stata, appunto, oltre a una mancata segnalazione di possibilità di pericolo, una segnalazione errata di non pericolo, che si è risolta in una rassicurazione disastrosa dal momento in cui la GCR ha informato - in modo superficiale (analiticamente), infondato (scientificamente), fuorviante (rispetto alla possibilità di pericolo) e letale (rispetto a quanto è successo) - la popolazione del fatto che in quelle circostanze non vi sarebbe stata una catastrofe. Non dire “state attenti” è opposto dall’affermare “state tranquilli”, che non solo implica il non dire “state attenti” (il non prescrivere condotte precauzionali), ma lo esorbita (prescrivendo condotte avventate).
Certo, gia dallo studio di Grandori e Gaugenti prima menzionato[11] si evince che, se non fossero stati omessi dei dati scientificamente ineludibili dalla formulazione della diagnosi di rischio, sarebbe stato difficile pervenire alle conclusioni rassicuranti che abbiamo analizzato. In quel caso si sarebbe dovuta informare la popolazione a partire dalle uniche conclusioni metodologicamente ammissibili a partire da quelle premesse: nell’area a maggior rischio sismico d’Italia, caratterizzata da un’evidente vulnerabilità del tessuto abitativo, è in corso una sequenza sismica che amplificava di 100 volte la possibilità di un evento catastrofico. Quel segnale di allerta non è stato dato quando la scienza indicava tutte le ragioni per farlo; ma il problema non è affatto questo, e occorre ribadirlo chiaramente. È successo molto peggio: alla gente è stato autorevolmente spiegato e paternalisticamente ripetuto che poteva rimanere nelle proprie abitazioni anche nel caso di scosse allarmanti, perché queste non indicavano il preludio a un disastro, ma erano segno che l’energia stava scaricandosi.
Come dicevamo, la vulnerabilità a eventi come i terremoti dipende certo da fattori quali la qualità delle costruzioni, ma anche dalle modalità con cui culturalmente si determina la percezione del rischio. Si muore se avviene un terremoto tale da far crollare una casa insicura e se, in quella casa, si pensa di essere al sicuro perché gli scienziati hanno garantito che non ci sarà il terremoto. Perciò quelle rassicurazioni disastrose hanno pesato come una casa costruita male nel concausare la strage del 6 aprile 2009. Se si fosse costruito bene non ci sarebbero stati morti? Probabile, ma probabilmente non ci sarebbero stati morti neanche se non si fossero abbondantemente fornite alla popolazione delle rassicurazioni infondate. Il terremoto è stato una condizione necessaria di morte, ma non sufficiente: in molti casi per fare uscire la gente dalle abitazioni sarebbe stato sufficiente non solo dire “attenzione ci potrebbe essere una scossa”, ma anche semplicemente non dire nulla: in quel modo non si sarebbe minata quella sorta d’istintualità culturale da secoli sedimentata in loco che, alimentando il dubbio, richiama alla consuetudine precauzionale tradizionale di uscire da casa dopo scosse forti e restarvi per diverse ore. Invece il dubbio, il sale della scienza, pare aver avuto poca possibilità di asilo in quell’altamente scientifica commissione che ha rassicurato la popolazione con la diagnosi disastrosa secondo la quale quelle scosse erano il segnale positivo di un rilascio di energia.
Va ribadito che molti altri abitanti – tanto quelli che hanno prestato fede certa alle rassicurazioni della CGR quanto quelli ai quali tali rassicurazioni sono comunque bastate per dubitare delle loro paure – si sono salvati solo perché il terremoto non ha fatto crollare le loro abitazioni, molte delle quali si sono rivelate sollecitate al limite dello schianto, gravemente danneggiate, fermate sul ciglio del disastro “per un soffio”: sarebbe bastato un minimo di intensità in più o qualche altro secondo per farle diventare una tomba; per passare da trecento a tremila o trentamila vittime. Si è parlato molto della vulnerabilità degli edifici, dell’idea della “città di cartone”, ma non si è detto che la quasi totalità delle abitazioni, in un modo o nell’altro, “ha retto” a uno scuotimento che, considerando la posizione epicentrale della città e la bassa profondità del sisma è stato intensissimo. Circa la metà degli aquilani sono sopravvissuti perché – fortunatamente – le loro abitazioni sono riuscite a superare quel mezzo minuto di terremoto senza crollare. Novantanove case su cento sono riuscite a salvare le persone che vi erano rimaste imprudentemente dentro a causa del condizionamento culturale proveniente da informazioni infondatamente rassicuranti.
Il potenziale disastroso della diagnosi della CGR risulta evidente dal momento in cui si mette in risalto che essa ha generato uno schema interpretativo il quale – incardinato su un principio vacuo di rassicurazione quasi sempre enunciato in termini deterministici – ha attutito la percezione culturale del rischio, amplificando così la vulnerabilità del luogo, e configurandosi quindi come un «nemico invisibile». Se è vero che «i pericoli più pericolosi sono quelli che non riconosciamo come pericoli, i rischi gravi che non sappiamo di correre»[12], la forza distruttrice della diagnosi della CGR sta nell’aver definito – in base a una valutazione infondata – il significato di un segnale: secondo quegli esperti autorevoli la sequenza sismica in atto non indicava la minaccia sempre più forte di una catastrofe imminente, ma, al contrario, essa realizzava la liberazione da un pericolo che, appunto, si è fatto funestamente credere che si stesse “scaricando”. Questo in definitiva, nel caso del terremoto dell’Aquila, significa ‘rassicurazionismo’.


[1] Tagliapietra, 2004: XXVIII.
[2] Nimis, 2009: 9.
[3] Cfr.: Clementi-Piroddi, 1986: 48.
[4] Cfr.: Berardi, 2008: 78.
[5] Tra l’altro, a testimonianza del sentimento d’inquietudine che percorreva il senso comune aquilano, lo stesso giorno della riunione della CGR, l’Arcivescovo dell’Aquila decise di celebrare una messa solenne con lo scopo di invocare la protezione di sant’Emidio. La funzione si tenne nella chiesa delle Anime Sante, il luogo simbolo della strage del 1703, dove la statua del santo per l’occasione fu trasferita, e lì rimase fino al 6 aprile, finendo seppellita dal crollo parziale della chiesa.
[6] Cfr.: Ligi 2009: 16-18.
[7] Cfr.: Alexander, 2000: 14; Ligi, 2009: 104.
[8] La disastrosità va intesa in tal senso proprio come la proprietà di un agente distruttivo, fisico, sociale o culturale che sia (cfr.: Ligi, 2009: 73).
[9] Riprendo qui il tema che ho già trattato in un testo pubblicato sul mediaweb www.abruzzo24ore.tv (“mancato allarme o rassicurazione disastrosa?”, 15 giugno 2010) e in due convegni (“Cittadini insicurezza”, Associazione Italiana Giovani Avvocati, L’Aquila, 18 febbraio 2011; “Memoria storica e attualità nello studio della sismicità regionale ed interregionale”, INGV, Protezione Civile, Gorizia, 27 marzo 2011).
[10] Ad esempio, anche nei giorni in cui concludo questa scrittura, il 26 novembre 2011, noto che il telegiornale regionale di Rai3 racconta una delle udienze del processo alla CGR, che sono iniziate dal 20 settembre, parlando ancora di “mancato allarme”.
[11] Cito questo studio in un capitolo della consulenza non riportato in ques’estratto: riguardo alle carenze metodologiche della diagnosi espressa dalla CGR sono stati molto chiari Giuseppe Grandori ed Elisa Gaugenti – due autorità nel campo dell’ingegneria sismica e dell’analisi del rischio sismico – che hanno dedicato alla vicenda una pubblicazione. Secondo gli studiosi per prima cosa l’affermazione deterministica sostenuta dalla CGR che “la previsione dei terremoti non è possibile” non è scientificamente corretta. Questo poiché «le scosse premonitrici (come ad esempio quella di magnitudo 4.0 del 30-03-09) sono considerate dalla comunità scientifica internazionale come un reale precursore, sia pure con alta probabilità di falso allarme». In merito una serie di ricerche hanno dimostrato che in questi casi il rischio diventa «100 volte più grande del rischio sismico di base della zona». Pertanto, per quello che riguarda la comunicazione istituzionale del rischio sociale, una sequenza sismica dovrebbe essere trattata dichiarando la probabilità di occorrenza di un sisma catastrofico, fornendo una stima calcolata in base alle conoscenze tecniche a disposizione. Non solo: tale dato va incrociato con la sismicità del luogo e le previsioni a lungo termine; e sull’Aquila vi erano degli elementi che non potevano non indicare la necessità di comunicare uno stato di allerta, ma questi non furono presi in considerazione. Quell’amplificazione della probabilità di un sisma catastrofico determinato dalla sequenza sismica in atto si inseriva in un contesto di sismicità storica dove, proprio una ricerca dell’INGV del 1995 (che durante la commissione e nel corso dei mesi precedenti non fu mai nemmeno menzionata), informa del fatto che «la regione dell’Aquilano risulta, fra le 20 regioni considerate, quella con la maggior probabilità di un forte evento nel ventennio 1995-2015». Inoltre, poiché il sisma del giorno precedente la riunione della CGR aveva già causato alcuni danneggiamenti nonostante la modesta magnitudo, si era resa evidente la vulnerabilità del tessuto urbano; ciò avrebbe dovuto indurre già da sé a «ritenere particolarmente pericoloso un eventuale forte terremoto», e quindi a spostare la valutazione della situazione verso scenari tutt’altro che rassicuranti. Così Grandori e Gaugenti concludono osservando che «resta inspiegabile il fatto che la Commissione e i responsabili della Protezione civile, oltre a scegliere l’opzione allerta-no (scelta legittima pur se criticabile dal punto di vista metodologico), abbiano potuto assumersi la responsabilità di scoraggiare le iniziative di prevenzione che molti cittadini suggerivano o autonomamente assumevano» (cfr.: Grandori, Gaugenti, 2009).
[12] Ligi, 2009: 9.

BIBLIOGRAFIA

Alexander, D.
2000 Confronting Catastrophe, Oxford, Oxford University Press.
Berardi, M. R.
2006 “I terremoti nel periodo medievale”, in Redi, F., Breve storia dell’Aquila, Pisa,
Pacini.
Clementi, A. – Piroddi, E.
1986 L’Aquila, Roma-Bari, Laterza.
Grandori, G. – Guagenti, E.
2009 “Prevedere i terremoti: la lezione dell’Abruzzo”, in AAVV, Ingegneria Sismica,
anno XXVI, numero 3, Pàtron Editore, Bologna.
Ligi, G.
2009 Antropologia dei disastri, Roma-Bari, Laterza.
Nimis, G. P.
2009 Terre mobili. Dal Belice al Friuli dall’Umbria all’Abruzzo, Roma, Donzelli.
Tagliapietra, A.
2004 “La catastrofe e la filosofia”, in AA. VV., Sulla catastrofe: l’illuminismo e la filosofia del disastro, Milano, Bruno Mondadori.


CONSIDERAZIONE GENERALE:

C'è qui un elemento che va oltre la circostanza della vicenda aquilana: a ben vedere il rassicurazionismo pervade la nostra società. Direi che, se per il sociologo Ulrich Beck viviamo in una "società del rischio", la reazione istituzionale a tale condizione spesso si traduce in politiche rassicurazioniste. Il rassicurazionismo è il metodo dello struzzo, il modo più semplice per reagire al pericolo, anche se il meno efficace: nascondere la testa sottoterra far finta di nulla. Sull'ambiente, sul lavoro, sulla pace, sulla salute, sulla giustizia sociale, su qualsiasi necessità di sicurezza siamo quotidianamente bombardati da rassicurazioni che spesso si rivelano disastrose. Il rassicurazionismo è una strategia biopolitica implicita, nascosta nei nostri tempi; tanto applicata quanto sottaciuta.



2 commenti:

  1. Salve,
    dal suo blog ho potuto trovare la risposta ai tanti quesiti che mi sono posto sulla sentenza della commissione grandi rischi, al contrario delle prosaiche rassicurazioni che i mezzi di informazione e scienziati ottusamente vanno rilanciando.
    Visto l'alto valore illuminate della sua relazione tecnica, la potrebbe rendere disponibile un file o sul blog??
    Grazie mille

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  2. la ringrazio per l'apprezzamento, la consulenza intera dovrebbe essere pubblicata a breve ma per ora non le so dire la data esatta
    cordialmente

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