testo pubblicato su “Left” del 10-12-2010 con il titolo “Le macerie de L’Aquila e dell’Università”
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Faccio il ricercatore all’Università, istituzione in crollo, e vivo a L’Aquila, città terremotata. Questo mi pone nella coincidenza di due realtà pericolanti, da ricostruire. Poi, la mia materia è l’antropologia culturale, e ciò tende a rendermi particolarmente vicino a un universale uso umano: la comparazione di differenze, ovvero lo svelamento di piani di similitudine nel contatto tra diversità. Nello specifico non posso non notare che, da un po’ di mesi, le macerie e i caschetti di una città terremotata sono diventati metafora nazionale per rappresentare una crisi sistemica. A L’Aquila, dopo il terremoto, il linguaggio catastrofico ha perso la sua dimensione simbolica per diventare referente di una situazione concreta. Questo comporta che la situazione aquilana, la gestione dell’emergenza, guardata da un certo punto di vista, restituisce una sorta di Stele di Rosetta che ci consente di decriptare un fenomeno che attraversa e accomuna le differenti parvenze con cui, da tempo, si manifesta.
A L’Aquila la necessità di dare un tetto ai terremotati è stata un mezzo per imporre la decisione del progetto c.a.s.e., omettendo soluzioni più economiche e più sostenibili, e favorendo le cordate aziendali connesse a tale progetto, dove l’aiuto ha consentito a grandi gruppi di “aiutarsi” attraverso margini enormi di profitto. A L’Aquila il Governo ha parlato di “emergenza risolta” e di “ricostruzione esemplare”, ma la città si svela ancora annientata. L’Università italiana si trova nella necessità di rinnovarsi, e tale esigenza viene strumentalizzata dal ddl Gelmini per programmare una riduzione, fatta di tagli demolitivi. L’Università ha da risolvere il problema del nepotismo baronale, e ciò diventa pretesto per un’aziendalizzazione del sistema della formazione che è preludio a un’irreggimentazione politica dei saperi fondata su un centralismo che istituirà nuove baronie rafforzando quelle vecchie. Gli aquilani sanno che non c’è stata nessuna ricostruzione, ma il Governo parla di ricostruzione; i baroni universitari sono ufficialmente a favore del ddl Gelmini, ma il Governo dice che il ddl è contro i baroni. Si tratta dell’uso performativo delle parole, che è un uso sistematicamente orwelliano: nella parola ‘ricostruzione’ si è nascosta la costruzione ex-novo di costosissimi agglomerati di cartongesso; nella parola ‘riforma’ si nascondono una demolizione e una privatizzazione dell’Università.
Parole come strumenti d’inganno, che servono a mistificare attraverso la sineddoche, dove ciò che non conviene in termini di consenso viene occultato dai riflettori: la “cura” diventa veicolo di sfruttamento; di una città, come di un’istituzione. È in ciò che emerge un nesso sostanziale: una strategia di potere incentrata sull’utilizzo delle situazioni di crisi come cavallo di Troia per legittimare ingannevolmente un autoritarismo finalizzato alla riduzione dei beni collettivi a strumenti di profitto per gruppi di speculatori privati. La necessità dell’intervento fa da pretesto per la decisione riguardo la forma che lo stesso dovrà assumere, la quale viene rappresentata come la migliore se non l’unica possibile: entro una narrazione che parla ingannevolmente di scelte fatte per la gente, si agisce per massimizzare il profitto attraverso la predazione del pubblico. Così la retorica del “fare” maschera la prassi del “fare affari”, in una politica che da anni ha subordinato il sociale all’economia. Questo metodo vuole raggiungere uno scopo politico-culturale che non è una semplice privatizzazione: la feudalizzazione della società civile entro protettorati imprenditoriali.
C’è poi un problema enorme che concausa ciò: l’assuefazione del senso comune allo sciacallaggio perpetrato dal fondamentalismo capitalista, la falsa credenza nell’ineluttabilità del principio della massimizzazione degli utili economici, l’inconsistenza di alternative che configura da anni un antagonismo fondato sul bisogno della presenza egemonica del potere contestato, la riduzione della protesta a rappresentazione di dissenso fine a se stessa. Silenziosamente l’iperbole contestativa del “chiedere l’impossibile” si è da anni rovesciata in una sensazione d’impossibilità del chiedere. Questo sentimento di disillusione riduce il mutamento radicale, la rivoluzione, a rituale generazionale, nel preconcetto che il mondo non si può cambiare; fraintendendo una realtà storica quella della località delle rivoluzioni: se il mondo raramente cambia in modo totale, sempre e inevitabilmente cambia in piccole parti. Così la cultura del dissenso è si è musealizzata in un canovaccio post-adolescenziale, che – oltre lo spazio di “riserva” dei cerimoniali di protesta – non riesce ad evitare la disillusione apatica, lo stigma dell’irrazionalismo, della nostalgia sessantottina, del folklore ribelle, dell’estremismo, dell’inutilità.
Anche in questi giorni si sente ri-proclamare enfaticamente la “rivolta contro l’esistente”, si lanciano accuse di fascismo al Governo così generiche da dare l’impressione di una vuota liturgia della contestazione; e il dissenso è congestionato tra questi eccessi isterici di nostalgia folklorizzante e l’opposto apatico della disillusione. Viceversa è giunto il momento di concretizzare; e forse l’improponibilità di questo decreto è più inevitabile dell’ossimoro nel quale – tra disincanto verso il futuro e nostalgie folklorizzanti – affogano da anni le proteste.
Ma, anche separando il progetto dalla protesta, ci vuole motivazione; mentre questo movimento ha un problema fondamentale che è correlato a una carenza di motivazione: non ha un nome. La Pantera prese il nome da una concomitanza di cronaca: l’atto naturalmente selvaggio di un animale in ribellione da una gabbia. Invece questi sono i giorni del gesto di rivolta di Mario Monicelli, che ha deciso in una primordialente pagana manifestazione di volontà di togliersi la vita, conto un biopotere che mira a controllare i corpi, negando il diritto alla morte. Monicelli sta tra Eluana Englaro e L’Aquila, tra la costrizione in vita che si impose su un corpo di ragazza inanimato e l’alienazione dello spirito di un luogo ferito, privato di autonomia, costretto all’eterodirezione. Entrambe segni di una cura finalizzata alle macchine più che alla guarigione, al profitto più che all’esistenza. Monicelli ha detto no, e infine ha dato un riscatto alla sua “Armata Brancaleone”, ha sciolto l’incantesimo dell’ineluttabilità della sconfitta ristabilendo un principio che volle far raccontare ai suoi eroi imperfetti: l’umanità. Recuperare la possibilità del gesto è segno di autonomia, ma l’autonomia viene da una premessa: la capacità di darsi un nome, ossia un senso. Non so come si vorrà chiamare o se riuscirà a trovarsi un nome, ma spero che quest’ “Armata Brancaleone” vincerà; perché a volte si può anche vincere, e bisogna ricordarselo.
Si può vincere se si mette a fuoco la situazione, evitando gli opposti eccessi tra illusione e frustrazione, perché all’inganno non si risponde con l’illusione né al trionfalismo con la frustrazione. Oggi si può circostanziare la rivolta su un principio sostanziale di concretezza. Quando si scende in piazza, per L’Aquila o per l’Università, non si scende in piazza solo per L’Aquila o solo per l’Università, né per astratti ideali: si sta difendendo il pubblico dalle privatizzazioni, affinché possa tornare a ciò che il pubblico dovrebbe essere: un bene collettivo. Si sta tutelando la società dall’economia, perché il fondamentalismo capitalista non solo sottrae risorse alla collettività, ma le distrugge.
L’Aquila, 6-12-2010
Antonello Ciccozzi
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