Raccolgo qui dei testi che ho scritto su alcuni aspetti della gestione del processo di (ri)costruzione della città dell'Aquila in seguito al terremoto del 6 aprile 2009.
Gli scritti, a partire da una visione critico-problematica basata su prospettiva di analisi antropologico-culturale, puntano a mettere in rilievo i momenti di ingenuità, disfunzionalità, corruzione, propaganda, speculazione, profitto che minacciano il futuro della città.

L'Aquila, 10 marzo 2010
Antonello Ciccozzi

lunedì 29 novembre 2010

MACERIE DI UNIVERSITA’, MACERIE DI DEMOCRAZIA, 29-11-2010


riporto il mio intervento al sit-in universitario di protesta contro il ddl Gelmini, tenuto a L'Aquila in zona rossa, di fronte la sede storica della Facoltà di Lettere e Filosofia

(pubblicato anche su: http://www.carta.org/articoli/19864,

e su: http://www.ateneinrivolta.org/università/macerie-di-università-macerie-di-democrazia)

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MACERIE:

Questi giorni l’Italia civile parla il linguaggio delle macerie. Le macerie sono un simbolo del degrado in cui versa lo Stato. Le macerie nascoste sono un simbolo dell’inganno della propaganda, dell’attitudine a omettere dai riflettori ciò che non va: quasi tutto.

Le macerie in Italia sono un simbolo, ma le macerie a L’Aquila sono un referente: L’Aquila è un serbatoio di segni che raccontano i meccanismi di un sistema di propaganda che è di tipo dittatoriale, anche se mimetizzato dentro parvenze democratiche. Per chi ha ancora occhi per vedere, trionfalismi del Governo a L’Aquila rivelano una realtà pericolante di subordinazione del sociale a strategie di profitto. Per questo L’Aquila invita l’Italia alla rivolta, a partire dall’Università, perché la cultura è una risorsa e un antitodo alla tirannia. Per questo l’Università dell’Aquila si rivolta.

INGANNO:

Il DDL Gelmini è un attentato al mondo della formazione, espressione di un Governo dell’inganno. Infatti, il ddl gelmini maschera nella veste della riforma una riduzione, una distruzione, una feudalizzazione del sistema nazionale della formazione. Una riforma è necessaria, ma non questa, e non possiamo permettere che tale necessità diventi un cavallo di troia per attaccare la scuola, per abbatterla, riducendola all’osso e al servizio del potere costituito. Il DDL Gelmini toglie risorse al mondo della formazione, lo precarizza, lo dispone alla privatizzazione, indebolisce gli atenei meno grandi; porta l’Università verso un’aziendalizzazione della conoscenza, che inevitabilmente scaturirà in un’irreggimentazione politica dei saperi. E poi, deve essere chiaro che è una bassezza propagandistica riprovevole far credere che questo DDL sia conto le baronie accademiche: le vere baronie accademiche appoggiano il decreto Gelmini, in quanto, se passerà, ne saranno ampiamente rafforzate.

SUDDITANZA:

In uno Stato democratico la società civile si deve opporre con tutte le forze al rischio della riduzione del sapere a strumento di regime. L’istruzione è, è stata, il mezzo per trasformare i sudditi in cittadini, viceversa così si apre la strada per riportare le masse alla sudditanza. Nei regimi oppressivi l’«ignoranza è forza»: siamo di fronte a uno scenario sostanzialmente orwelliano, propinato con un’ingannevole delicatezza. Le dittature vecchie e nuove – che siano basate più sulla violenza o più sulla finzione – hanno paura della conoscenza. Così, una dittatura mascherata da democrazia mimetizza dentro il rassicurante termine “riforma” un attacco demolitivo alla formazione finalizzato a rafforzare una grammatica di potere che ha bisogno della sudditanza.

ASSUEFAZIONE:

Questo regime dell’inganno si serve sistematicamente dell’assuefazione nei confronti di un processo generale di erosione della società da parte del profitto. L’opinione pubblica si è assuefatta a una strategia di stigmatizzazione con cui qualsiasi forma di dissenso civile viene degradata a irrazionalismo estremista. L’effetto più nefasto di quest’assuefazione al regime è l’aver prodotto un diffuso sentimento di perdita della speranza rispetto a un mutamento possibile: oggi l’alienazione parte dall’induzione della falsa coscienza che non vi sono alternative realmente praticabili.

RIVOLTA:

È per questo che, anche a partire dalle Università, è necessaria una presa di consapevolezza collettiva verso una rivolta culturale, oltre che politica.

Antonello Ciccozzi

L’Aquila 29-11-2010

sabato 20 novembre 2010

MIRACOLI E TELEMAGHI


questo è il testo del discorso che ho preparato per la manifestazione nazionale dell'Aquila del 20 novembre 2010 "macerie di democrazia"

ps.: link al video dell'intervento


(per questioni di tempo ho tagliato qualche passaggio)
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Vorrei fare mente locale sulla questione del miracolo aquilano, ma prima è meglio ricordare due notizie, perché sono importanti, e perché questo è un paese dalla memoria fragile:


la prima notizia data dai media nazionali è che non ci sarebbe stato nessun terremoto, in quanto essendo di fronte a un normale rilascio di energia potevamo stare tranquilli e bere un buon bicchiere di Montepulciano. Così dissero ai media - in mezzo a mesi di scosse continue - i vertici della protezione civile, nell’ambito della commissione nazionale grandi rischi.


la seconda notizia data dai media nazionali è che, dopo il terremoto che non doveva esserci, a L’Aquila c’è stata letteralmente una “ricostruzione esemplare” e questo titolava “il giornale” un po’ di mesi fa.


D’altra parte lo stesso Berlusconi ha ossessivamente parlato di ricostruzioni record, vantandosene in Europa. Due mesi fa dichiarò al quotidiano francese "Le Figarò" queste parole: «in tempo record abbiamo ricostruito un’intera città».


Poterle sparare così grosse e offensive senza ritegno in un certo senso è un miracolo, e a L’Aquila ci sono stati molti miracoli.


Il primo miracolo è stato dimenticarsi di oltre 300 vittime, che si sarebbero salvati se non avessero avuto quelle autorevoli rassicurazioni disastrose, in un’altra strage italiana che cerca di restare impunita

Poi c’è il miracolo che ci sono state solo oltre 300 vittime, che sarebbero potute essere 3.000 o 30.000, perché mezza città si è fermata al limite, e ancora resta sospesa sulla soglia del crollo totale, per puro caso. Sarebbe bastata una manciata di secondi in più.


E L’Aquila ha ancora la necessità e il dovere di elaborare un lutto, perché la rimozione è l’antitesi del cordoglio; e questo dovrà essere un tema nazionale, in quanto quelle rassicurazioni disastrose furono un fattore di concausa di una strage che non è solo la strage di un terremoto: c’è una complicità di Stato.



Un miracolo considerevolissimo, a cui miracolosamente non fa caso nessuno, è che dalla stessa commissione che ci diede quellerassicurazioni disastrose è venuta la direzione che ci ha propinato ilprogetto case. Ci siamo assuefatti al conflitto di interessi, e questo è un orrendo esempio di conflitto di interessi.


Così, arriviamo all’emblema del miracolo aquilano: il progetto c.a.s.e. che è un vero miracolo in quanto, nel mezzo di una situazione di crisi economica, grazie a un terremoto, l’egemonia dei grandi gruppi imprenditoriali nazionali ha potuto operare in condizioni miracolose, ossia:

- con enormi margini di profitto

- in deroga rispetto alle leggi

- in uno sfruttamento ottocentesco di masse di manodopera salariata


Attuata con costi esorbitanti, q

uesta soluzione ha dato alloggio alla metà degli aventi bisogno, lasciando una città (quella vera) imbalsamata e producendo uno scempio paesaggistico.


Anche nascondere le migliaia di sfollati non miracolati e i danni al territorio con cui dovremo fare i conti per decenni è un miracolo.


Un altro miracolo nel miracolo è stato far passare questa scelta come necessaria, migliore di tutte se non unica praticabile, mentre vi erano molteplici possibilità di housing alternative enormemente meno impattanti, enormemente meno costose e ugualmente confortevoli.


Queste soluzioni avrebbero ottimizzato la resa sociale del prodotto consentendo un risparmio del 3-400% rispetto al progetto imposto dalla protezione civile, ma non sono state scelte. Questo è un miracolo.



Un altro miracolo è quindi sostenere che per L’Aquila sono stati spesi tanti soldi, omettendo che la maggior parte di questi soldi sono finora finiti in tasche esterne all’Aquila. Ossia che - attraverso L’Aquila - poche persone hanno rubato tanti soldi, che l’aiuto è servito come pretesto per aiutarsi.


Un miracolo simile è che i soldi per la ricostruzione ci sono, ma dato che bisogna saperli chiedere, non ci sono; perché è colpa nostra che non sappiamo la formula dell’«apriti sesamo».


Poi a L’Aquila c’è un miracolo fastidiosissimo: mezza città è uscita indenne e rafforzata dal sisma, e mentre cannibalizza la parte ferita, difende politicamente i carcerieri che la imprigionano nel sistema dei commissariamenti e delle ordinanze. E’ QUESTO EGOISMO INTERESSATO; QUESTO SCIACALLAGGIO INTERNO, CHE IMPEDISCE UNA RIVOLTA GENERALIZZATA DELLA CITTA’.


E qui dobbiamo chiedere un sistema di sostegno che – non solo a L’Aquila, ma ovunque vi sia una catastrofe – esca da una visione indifferenziata del danno e corrisponda al dettaglio i bisogni rispetto alle necessità, perché non tutti sono terremotati allo stesso modo, e se non si comprende questo si produce tensione sociale.


Dobbiamo cacciare commissari e manager che impongono una governance esterna ed usano L’Aquila come pretesto per drenare profitto e orientarlo a gruppi affiliati al governo.



Torno al miracolo iniziale, quello della menzogna: un presidente del Consiglio che spara balle grosse come una casa, l’inganno sistematico elevato a strategia di consenso, il regime dello spettacolo: un governo di tele-maghi ci ha assuefatti a tutto questo e non abbiamo capito che i tempi delle emergenze locali parlano il linguaggio del tempo della normalità globale, di un mondo in cui le ragioni del profitto sovrastano quelle della società, dove la politica è orientata all’economia e non alle persone.



Insomma, i miracoli vanno capiti: i miracoli se funzionano salvano chi li riceve, ma basta che siano semplicemente raccontati per santificare chi li avrebbe compiuti. Questo a prescindere dal risultato, si può pure non guarire, ma se si grida al miracolo si sancisce la nascita di un guaritore. E un potere che si regge sulla rappresentazione di doti di guarigione è un potere primordialmente fondato sull’inganno.



L’Aquila è una città pericolante, comatosa, tutt’altro che guarita, evenire all’Aquila significa scoprire un inganno, e questo vale fuori da politicizzazioni o altri trucchi propagandistici con cui si stigmatizza un dissenso che è l’unica cosa civile di questa indecorosa storia italiana.



L’Aquila è ormai un termine del linguaggio nazionale, a cui dobbiamo ridare senso:

il progetto case ci parla lo stesso linguaggio di opere come l’inceneritore di Acerra, la TAV, il ponte sullo stretto: opere che servono più al profitto di ristrette egemonie che al benessere sociale, opere che si potrebbero evitare in quanto dannose, e in quanto sostituibili con alternative socialmente sostenibili che però vengono censurate in quanto meno redditizie.



Per tutto questo, nell’esigenza di ricordare vogliamo ridenominare la nostra via XX settembre in “via VI aprile”; e vogliamo chiedere all’Italia che la data del 6 aprile sia riconosciuta come “giornata nazionale per la prevenzione dei disastri”.


Perché questo paese ha la memoria fragile, mentre se non vogliamo perderci abbiamo bisogno di ricordare.


Dobbiamo ripartire dal 6 aprile.

venerdì 19 novembre 2010

DEMOCRAZIE PERICOLANTI: LA CATASTROFE DEL CAPITALISMO DA L'AQUILA A BERLINO 19-11-2010


intervento per la manifestazione nazionale dell'Aquila del 20 novembre 2010 "macerie di democrazia", pubblicato su:

http://www.carta.org/editoriali/19851

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Un terremoto ha reso L’Aquila una città pericolante. Ma non solo, oggi L’Aquila è anche un termine del linguaggio con cui la nazione si rappresenta, un termine a cui sono stati dati diversi significati. Forse per vari mesi i più praticati sono stati quelli di ‘emergenza’, ‘miracolo’, e, all’opposto, quello di ‘ingratitudine’. Rispettivamente del terremoto, del Governo, degli aquilani.

Invece venire a L’Aquila è aprire gli occhi su una città pericolante in mezzo alla rapsodia di cartongesso e cemento del progetto c.a.s.e.. E in questo scenario si legge una parola che forse dice tanto dei nostri giorni: ‘inganno’. Inganno evidente perché dietro quello che è stato venduto all’opinione pubblica come “miracolo aquilano” non c’è stata nessuna “ricostruzione esemplare”; inganno suggerito dal dubbio legittimo e imponente che l’aiuto sia servito anche come pretesto per praticare larghe strategie di profitto. Inganno nascosto dal bombardamento propagandistico dei media di regime. Inganno, poiché i “miracoli” solitamente sono finzioni, che cadono quando si smette di crederci.

E non si può accettare lo stigma dell’ingratitudine come minaccia per delegittimare il dissenso. Quello dell’Aquila è un grazie sincero, incondizionato ed eterno a quell’Italia che in questa tragedia si è scoperta solidale, in uno spirito che rappresenta quanto di meglio può esprimere la Nazione. Ma c’è una parte della città, che solo per comodità si può tacciare di politicizzazione, di gente che non ha mai creduto a certi vertici della macchina dell’emergenza, ponendo una ferma condanna contro chi è venuto a speculare sulla catastrofe, urlando contro il vento della censura e della propaganda.

C’è un dubbio enorme: che il progetto c.a.s.e. sia una truffa, in quanto ha veicolato un’operazione di speculazione edilizia, attraverso scelte costruttive artificiosamente presentate in termini di non plus ultra o addirittura di condicio sine qua non, e attuate a costi che paiono esorbitanti. Il progetto c.a.s.e. parla lo stesso linguaggio di opere emergenziali come l’inceneritore di Acerra: imposizioni fatte in situazioni di necessità escludendo alternative non solo praticabili, ma probabilmente assai più adeguate per la popolazione. Invece certe scelte non vengono praticate per ottenere il miglior risultato sociale possibile, ma per massimizzare i guadagni, in termini di propaganda politica e di profitto economico. Similmente il progetto c.a.s.e. dell’Aquila parla lo stesso linguaggio della crisi del lavoro: le aziende prima delle persone, l’economia prima della società.

È in questo modo che le opere emergenziali rimandano agli stessi codici di profitto che più sottilmente s’insinuano nella quotidianità dei tempi e dei luoghi normali. Le macerie dell’Aquila sono macerie metaforiche che rinviano ad altre macerie della democrazia, indicando l’inganno speculativo che fu imposto al mondo intero con il pretesto di un altro crollo: quello del muro di Berlino.

Accettiamo che i regimi comunisti avranno sbagliato su molti punti, ma l’inganno epocale fu far credere che il crollo del comunismo sovietico bastasse a legittimare come totale positività il modus operandi del capitalismo occidentale. Si tratta di un dispositivo manicheo di accusa scagionante, di un’algebra primordiale in cui, dalla demonizzazione di un sistema, si deriva la santificazione del suo opposto. In tal modo, dati gli errori di una dittatura che sottometteva l’uomo alla politica, ci si è chiusi in una dittatura che sottomette l’uomo all’economia. Così l’Occidente si è arreso ad un’economia che, santificando il concetto di “libero mercato”, sacrifica la società ad una politica del profitto. Proprio in tal senso oggi L’Aquila ci può svelare un principio generale rimasto nascosto sotto le macerie del muro di Berlino: il capitalismo del libero mercato non solo è sottrattivo, ma è anche distruttivo.

Mi spiego con un esempio: una signora mi diceva: “non ci possiamo lamentare se hanno mangiato sopra queste case, così va il mondo, li devi far mangiare e ti danno qualcosa”. È questo il punto dell’inganno, la prova dell’assuefazione a un sistema di mutuo scambio in cui si pone una relazione tra il polo della protezione sociale ridotta a elemosina e la contropartita del parassitismo aziendale elevato a dominio. Quando l’obiettivo si riduce alla sola massimizzazione degli utili, il prodotto subisce una degenerazione rispetto alla funzione: l’utensile degenera in paccottiglia. Il vampirismo che il libero mercato pratica sulla società non si basa solo sul prendere rispetto al dare: oltre alla questione dimenticata del plusvalore, c’è il problema dell’immissione di prodotti distruttivi; da condomini che deturpano il paesaggio a centrali nucleari che minacciano il futuro, tutto propagandato come necessità, censurando le alternative possibili. Questo processo si realizza incessantemente e a tutti i livelli: dalla forma di una città alle minutaglie consumistiche che, nell’indifferenza generale, sempre di più sommergono il quotidiano.

Si badi bene, questo non riguarda una mera considerazione teorica: siamo di fronte a un meccanismo di produzione di senso comune che da oltre due decenni agisce sulle masse ogni giorno. Pensiamo a quante volte nel linguaggio politico lo spettro del “comunismo” è ancora evocato per convalidare la dittatura del capitalismo. È questo manicheismo contrappassistico, in cui il supporre che gli errori di una parte possano significare la bontà del suo opposto, che ha portato all’affermazione in tutto il mondo di una tipologia di regnanti di cui Berlusconi è solo l’esponente più caricaturale. Siamo nelle mani d’interpreti di una visione culturale della società che non è votata all’estensione del benessere, ma all’intensificazione di guadagni e privilegi.

Potrà sembrare eccessivo, ma, più volte sorge il sospetto di essere dentro un nuovo medioevo globale intessuto di reti di affiliazione intorno a potentati economici, in un arroccamento che rischia di rivelarsi preludio dell’estinzione di fronte all’ossimoro di un mondo che, mentre chiede benessere, brucia sempre più energia ed esplode di persone. Bisogna chiedersi quanto può durare una risposta fondata su un’idea protettiva del potere che parla di una (ri)feudalizzazione dell’umano, sotto un signoraggio che si legittima promettendo di difendere da catastrofi e da invasioni, che ancora intrattiene nei confronti della natura e delle moltitudini subalterne relazioni di predazione e di riduzione alla schiavitù.

Quello che deve destare preoccupazione è l’assuefazione del senso comune al principio della massimizzazione degli utili economici contro quelli sociali. A L’Aquila fummo vittime di una sorta di “assuefazione da bombardamento” rispetto a un perdurante sciame sismico,e cademmo nella trappola di una serie di rassicurazioni disastrose date da una commissione nazionale grandi rischi. Similmente la nostra società si è assuefatta alla cornice di potere della dittatura della massimizzazione dei profitti, nascosta dietro il rassicurante termine ‘libero mercato’.

L’Aquila parla il linguaggio della catastrofe, del presagio di un mondo pericolante, perché nei luoghi dell’emergenza il lato oscuro dell’ordine costituito si rivela come eccesso osceno in cui si possono decifrare i segnali di una crisi che è sistemica. L’Aquila ci dice che solo una rifondazione del sociale incentrata su un patto culturale può salvare una speranza di futuro dall’invasione del profitto; L’Aquila ci parla della necessità di una progettazione delle esistenze in cui politica ed economia siano orientate su percorsi sostenibili, capaci di riportare all’uomo.

E in tal senso va chiarito che non si tratta tanto di stare a questionare sulla proponibilità etica dello “stato d’eccezione”, rischiando l’inviluppo nel pret-a-penser filosofico. Il punto è fare un passo avanti per comprendere e contestare l’uso politico che dello “stato d’eccezione” viene attuato dal nostro ordinamento economico: la situazione emergenziale, naturalizzando un contesto di dominio in cui lo stato di necessità tende a opprimere la possibilità di scelta, si pone pre-testo per imporre egemonie pure, entro relazioni di potere di tipo post-coloniale, in cui l’aiuto diventa uno strumento di profitto e – riflessivamente – l’intenzione di profitto deteriora la forma dell’aiuto. Ciò non fa altro che mostrare in modo esasperato quello che è un meccanismo costitutivo del capitalismo che in tempi normali erode silenziosamente la società: il vampirismo del profitto sulla funzione del prodotto.

Oggi L’Aquila è un luogo paradigmatico, che deve dare senso anche ai concetti di ‘inganno’ e ‘cambiamento’, spiegando una consapevolezza e una volontà rispetto a una normalità che è assuefazione quotidiana; e che bisognerebbe rivedere fino alle fondamenta, perché fondamentalmente pericolante. Oggi L’Aquila parla il linguaggio del rischio di una catastrofe globale.

L’Aquila, 19-11-2010



NARRAZIONI SULLA CATASTROFE E TRANELLI SCIENTIFICO-IDEOLOGICI, 14-9-2010

questo testo contiene una replica a delle obiezioni che ho ricevuto a seguito del mio intervento sui rischi di asservimento ideologico delle istituzioni scientifiche (il testo “Terremoti: dalle stupidaggini scientifiche agli stereotipi culturali"). La polemica è partita dalle pagine de "Il Messaggero" e del sito abruzzo24ore.tv, dove sono reperibili tutti gli elementi, strascichi compresi:
http://www.abruzzo24ore.tv/news/Catastrofe-e-tranelli-scientifico-ideologici/18612.htm


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Le accese risposte a un mio intervento, da parte di un responsabile del PD locale (Giulio Petrilli) e di un dirigente dell’INGV (Warner Marzocchi), meritano una replica; questo per dovere di chiarimento rispetto ad alcuni fraintendimenti e scorrettezze argomentative. Questo precisando che, se l’elaborazione di dati sui terremoti è ovviamene compito di geologi e sismologi, la discussione sull’uso sociale degli stessi è questione prettamente socio-antropologica, specie per quanto riguarda il rischio che tali informazioni vadano a costituire la materia prima per la costruzione di stereotipi culturali.

Se Petrilli avesse letto con attenzione avrebbe costatato che ho scritto che quello che ritengo inaccettabile è attribuire i danni del terremoto esclusivamente a fattori di cattiva costruzione. “Esclusivamente” vuol dire che la cattiva costruzione è un fattore, ma non il solo. Questo è il punto centrale, e non è questione di mettere “la testa sotto la sabbia” (l’uso di quest’espressione mi sorprende, in quanto mi sembra più appropriata per descrivere il comportamento che molti politici locali hanno adottato nei confronti del Governo per più di un anno). Semmai starei attento a non gettarci del fango addosso con le nostre mani, importando distrattamente visioni pseudo-scientifiche che rafforzano stereotipi che ci aggrediscono già da mesi. La carenza nella costruzione degli edifici è un fattore, ma lo è insieme all’intensità dello scuotimento: attribuire tutto alla qualità scadente delle costruzioni non è corretto.

Per meglio comprendere questo punto occorre a questo richiamare con forza un principio cardine della disastrologia, che ci dice che il danno dipende, appunto, dalla combinazione tra l’intensità fisica dell’evento naturale e gli elementi di vulnerabilità sociale (quali ad esempio la qualità delle costruzioni). Questo principio dimostra che non si può ridurre l’esito di un cataclisma esclusivamente a fattori di vulnerabilità, ma che – viceversa - questi sono al contempo una concausa necessaria che determina il danno finale. Azzerare la vulnerabilità di un luogo può essere un obiettivo asintotico per azzerare il rischio; ma a evento avvenuto, rappresentare tale vulnerabilità in eccesso può essere un modo per sminuire la misurazione della forza fisica dell’evento e scaricare eventuali responsabilità. In uno scenario in cui un’istituzione scientifica produsse rassicurazioni che si rivelarono di fatto catastrofiche, sarei molto prudente su questo punto. Forse qualcuno ha bisogno dello stereotipo del terremotino per scaricare una serie di responsabilità. In tal modo non si vuole assolutamente omettere il problema dei crolli, ma si vuole quantitativamente ricondurre a una visione più realistica delle peculiarità del sisma aquilano: in luogo di crolli sporadici la dovremmo finire di raccontare la città come se fosse tutta in macerie, e iniziare a comprendere che, purtroppo, la città è perlopiù pericolante; ma quasi sempre ci ha salvato da un terremoto tremendo, che, come ho scritto subito dopo il sisma, ha causato oltre 300 morti ma ha anche risparmiato circa 100000 vivi.

La Casa dello Studente è uno scandalo, ma L’Aquila intera non è la Casa dello Studente. Se vogliamo evitare di subire l’attribuzione stereotipi che fanno comodo a chi si deve pulire la coscienza perché ci ha rassicurato di stare al letto, senza nel contempo rimuovere elementi problematici dalla rappresentazione sociale del sisma, dovremmo essere in grado di raccontarci accogliendo entrambe questi elementi – l’intensità e la vulnerabilità – entro la narrazione collettiva dell’evento. L’Aquila ha subito uno scuotimento temendo ma ha riportato crolli sporadici. In vari convegni è stato comunicato dagli addetti ai lavori che a Pettino si è avuta un’accelerazione media di 0,68G con un fattore di amplificazione pari a 2, e questo come forza di scuotimento effettiva (superiore a 1G) colloca il terremoto come il peggiore evento italiano degli ultimi 95 anni. Tale visione è molto lontana dallo stereotipo della città di catapecchie distrutta da un terremotino, rappresentazione dalla quale i cittadini devono difendersi; rappresentazione già circolante nell’immaginario nazionale e che può venire rafforzata da modelli pseudo-scientifici quale può essere una comparazione omissiva della variabile della distanza dall’epicentro.

Rispetto al prof. Marzocchi, ribadisco che ho basato la mia critica su due punti, precisi, e che enuncio di nuovo per chiarezza, poiché se egli vuole controbattere alla mia tesi, ha il dovere deontologico di attenersi agli enunciati che ho espresso, non manipolarne l’ambito referenziale con modesti espedienti retorici:

1) è inappropriato comparare due terremoti omettendo il parametro della distanza dei luoghi colpiti dall’epicentro del sisma

2) la scala Mercalli non misura l’intensità del movimento ma i danni sulle costruzioni

Marzocchi asserisce che si tratta di analisi “sbagliate”, lo fa entro una cornice comunicativa assai veemente, che pertanto indurrebbe il lettore a pensare che io abbia portato delle affermazioni totalmente infondate. Stando a questa posizione di severo aut-aut consegue che Marzocchi riterrebbe attendibili affermazioni come:

1) è appropriato comparare due terremoti omettendo il parametro della distanza dei luoghi colpiti dall’epicentro del sisma

2) la scala Mercalli misura l’intensità del movimento

Certo, di fatto egli sul primo punto mi dà poi celatamente ragione dicendo che “la distanza epicentrale può essere importante”. Sarebbe bello capire quanto egli pensa che possa essere importante, visto che qualsiasi modello si costruisce in base alla definizione di variabili e alla definizione della rilevanza delle stesse. Così Marzocchi, mentre si scandalizza platealmente, riconosce che l’analisi del geologo gallese omette una variabile, ma non chiarisce quanto rilevante questa sia. Sospetto che la rilevanza della variabile “distanza” nella valutazione comparativa tra due sismi sia prioritaria rispetto al rischio di deformare il paragone, dando un’immagine ridotta dell’intensità del sisma aquilano. Questa tendenza alla riduzione dell’intensità del sisma aquilano è stata spesso praticata - a partire dalla magnitudo – ed è confermata dallo stesso Marzocchi, che dichiara che il sisma di Haiti sarebbe stato 30 volte più “grande” di quello dell’Aquila, quando invece la differenza è di 11. L’abitudine a limare certi dati sempre nella stessa direzione è di per sé un dato; un dato inquietante da un punto di vista socio-antropologico. Pare che qualche scienziato si alleni all’uso della lima, forse in prospettiva di prossime applicazioni pratiche di tale utensile.

Riguardo alla seconda questione, quella sulla scala Mercalli, Marzocchi mi risponde scavalcando il referente della mia affermazione: egli sostiene che la mia critica «è sbagliata» solo controbattendo che tale scala «è stata calibrata per “classificare” il danno agli edifici» ma viene usata anche «per produrre in tempo reale scenari di danni probabilistici». La questione dell’intensità di movimento non è nemmeno nominata. Probabilmente non ho inteso, ma non mi sembra un buon esempio di quella “qualità dell’informazione scientifica” che Marzocchi raccomanda.

Ho però l’impressione che il fastidio e la preoccupazione del dirigente derivi non tanto dal valore delle mie analisi, ma dal fatto che il mio discorso seguirebbe «un anno e più di critiche piovute sul mondo scientifico». Mi pare che il vero punto dolente sia questo. Prima di tutto vorrei far notare che le critiche in questione non hanno come oggetto genericamente il “mondo scientifico”, che mi auguro il dirigente non voglia sussumere per intero, ma perlopiù l’ambito specifico della qualità delle analisi prodotte dalla Commissione Grandi Rischi, di cui l’INGV fa parte. In proposito sarei poi prudente nel lamentarmi riguardo a presunte “supponenze” e “offese”. Ciò in quanto si ha l’impressione assai diffusa che alcune supponenti stupidaggini ammantate di (pseudo)scientificità concausarono, a partire da una serie di rassicurazioni disastrose”, la concretissima offesa di oltre trecento morti. Comprendere la formula di disastrologia che ho ricordato sopra può aiutare a capire che, posto che i danni da catastrofe dipendono anche e necessariamente dalla vulnerabilità sociale, questo fattore può essere eventualmente aumentato da scienziati che, in certe circostanze, producono messaggi erroneamente rassicuranti. O Marzocchi ha colto l’occasione per dare ad intendere che la colpa fu solo dei giornalisti che diedero male il comunicato?

Qui non c’è lo spazio per proseguire, comunque – dato che già mi sono occupato della questione delle “rassicurazioni disastrose” – mi riservo la facoltà di tornare in altre sedi in dettaglio sul tema; proprio riprendendo alcuni passaggi del testo di Marzocchi che ora non ho potuto discutere, ma che pongono seri dubbi sui rischi di asservimento di una (pseudo)scienza a forme di controllo politico-ideologico.

L’Aquila 14-9-2010